la
questione della formazione all’arte del governo
(di
Laura
Balestra)
Cos’è
una forma? E cosa può essere ricompreso nell’idea di una forma
applicata ad una mente che pensa sub
specie politica?
Il filosofo Aristotele definiva la forma come morphe,
schema
o eidos,
aspetto, figura o natura propria di una cosa: essenza. Qual è
l’essenza necessaria, naturale del pensare politico? E quali sono i
canoni formativi di una tale razionalità politica? Rispondere ai
seguenti interrogativi pone in essere una quaestio
primaria che è precipuo fondamento argomentativo di tale intervento:
che cos’è la politica?
La
politica è invenzione greca e dunque greco è il termine che la
designa: i Greci la chiamavano politike
techne.
Techne
vuol dire Arte.
La politica è un’arte, l’arte del buon governo della polis
e il politico è «l’artista per eccellenza».
I Greci avevano elaborato questa visione della politica e,
successivamente della filosofia applicata alla politica, come uno
spazio
di mediazione
all’interno del quale istanze di-verse, dis-cordi, venivano
soppesate, raffrontate e, qualora fossero state contrapposte,
mediate, de-cise, cercando di arrivare ad una soluzione che non
implicasse violenza, che non degenerasse in kratos,
potere violento. Lo spazio politico diveniva così koinon,
comune, dando vita ad una koinonia,
una comunità in cui tutti, nobili e non-nobili erano uguali tra loro
nella reciproca, identica subordinazione a qualcosa di superiore ad
essi: il nomos,
la legge. Lo scopo dell’azione politica antica era agito in vista
della creazione di homonoia,
armonia nella città, nell’intenzione a priori e a posteriori di
forgiare buoni cittadini: tale era l’alto effetto dell’ars
politica degli
antichi. Il fallimento constatato della politica italiana, nello
specifico, sospinge a ripensare forme e luoghi dell’agire politico,
con l’imperativo di ritesserne le fila ab
origine,
ab
imis,
dalle fondamenta crollate e, tuttavia, da ricostituire. L’attingere
al passato è sempre analisi del presente. Cosa è rimasto oggi del
nobile ideale greco in quelle vie che portano alle desolate piazze
della nostra politica?
L’agora
greca, centro vitale della vita
activa
antica, era il luogo dialettico e sintetico della politica classica,
lo spazio di discussione e formazione delle idee e dei cittadini.
La
moderna agora,
ammesso che ne esista ancora una, è un contenitore privo di
contenuto, una forma priva della sua materia, una teoria senza
prassi, un’assemblea senza astanti, un luogo di relazioni deprivato
dei suoi referenti.
La piazza centro di dialogo e il dialogo al centro della piazza:
questa la dinamica forza della politica attiva antica, questo il
sentiero disperso dalla politica attuale.
Se
la realtà relazionale della piazza si svuota e de-politicizza, in
che modo i politici potranno ridefinire il limes
della politicità umana ed entro quale spazio? Una nuova agora, una
struttura partitica, un centro di formazione politica? La politica ha
bisogno, per natura, di una dimensione reale
aperta all’ascolto attivo e al discorso agente, pena la perdita
stessa della sua identità artistica, dialogica, relazionale.
La
decadenza delle essenze politiche classiche nella società odierna
pone il problema di una ridefinizione delle moderne istanze politiche
in termini di scienza, arte, pratica, metodi, valori, formazione e
professionalità delle classi dirigenti. Ogni aspetto della vita
associata richiede una profonda comprensione della politica e delle
dinamiche politiche, quali parti integranti del nostro essere e del
nostro agire.
La
politica come professione
La
politica come professione
è il titolo di una conferenza tenuta dal sociologo tedesco Max Weber
il 28 gennaio 1919 a Monaco di Baviera e, seppur pronunciata in
un’epoca storica lontana, nel buio istante della crisi della
Germania imperiale e agli albori della Repubblica di Weimar, contiene
una riflessione magistrale o, se vogliamo, una serie di “idealtipi”
pregevoli sulla politica, i politici e le formazioni partitiche.
La
politica, per Weber, è non solo una professione, ma, nello
specifico, una vocazione, come esplicitato nel titolo originale del
suo intervento Politik
als Beruf,
dove il tedesco Beruf
è espressione di un’ambivalenza lessicale oscillante tra
«mestiere» e «chiamata». In
secundis
il sociologo definisce la politica come un’«attività
autonomamente direttiva»,
vòlta a dirigere e a influire sulla direzione dello Stato, che è
dunque il locus
specifico d’azione della politica. Fare della politica la propria
professione, il proprio ethos
o il proprio daimon,
può avvenire secondo due modalità: «O si vive “per” la
politica, o si vive “della” politica. Ma un modo non esclude
l’altro. Chi vive “per” la politica, ne fa in un senso intimo
la propria vita […]. “Della” politica come professione vive chi
cerca di farne una fonte duratura di reddito; “per” la politica,
invece, vive colui per il quale ciò non accade». Quale delle due
way of life sia più condivisibile o incontri e assorba l’una
nell’altra non dovrebbe essere in questione, benché secoli prima
di Weber un suo illustre predecessore, Aristotele, avesse avuto
pazienza di riflettere su qualcosa di simile, allorché, tuonando
contro i “falsi politici”, scrisse: «la maggioranza di coloro
che si dedicano alla politica ricevono questa denominazione non
correttamente: infatti essi non sono politici secondo verità, perché
l’uomo politico è colui che sceglie le azioni belle per se stesse,
mentre la maggior parte sceglie questo genere di vita in vista delle
ricchezze e del desiderio di potere».
È sorprendente l’attualità del pensiero aristotelico? Piuttosto
direi che attualizza, effettualizza dall’antichità una impasse
che, nel corso dei secoli, non ha mai trovato, o forse neanche
cercato, soluzione: perché si fa politica e sulla base di quale idea
o formazione? Al fine di non scadere nel dilettantismo o nella
«politica d’occasione», avrebbe detto Weber, subitaneo si
richiede un approfondimento di quanto pro-blematizzato, cioè
etimologicamente, “gettato davanti”.
Può la politica, un’arte del buon governo, essere esercitata con
l’intenzione di influenzare la gestione del potere sia come
weberiani “politici d’occasione” o, nel caso peggiore,
dilettanti sia come “politici di professione”?
«Politici
“d’occasione” lo siamo tutti, quando deponiamo la nostra scheda
elettorale o manifestiamo in maniera simile la nostra volontà, per
esempio attraverso l’applauso o la contestazione in un’assemblea
“politica”, quando teniamo un discorso “politico”. Per molti
individui, tutto il loro rapporto con la politica si restringe a
questo. Politici dilettanti sono oggi, per esempio, tutti quegli
uomini di fiducia e dirigenti di associazioni partitiche politiche
che solitamente esercitano tale attività solo in casi di necessità
e non ne traggono in prima
linea alcun vantaggio materiale né ideale per la loro vita». Tale è
la “politica d’occasione” o il dilettantismo politico, assai
simile peraltro alla descrizione dell’ekklesia
greca affrescata da Platone in un passo del dialogo Protagora:
«quando
si debba deliberare sul modo di condurre gli affari della città,
indifferentemente si leva a dare il suo consiglio un architetto, un
fabbro, un calzolaio, un commerciante, un marinaio, un ricco, un
povero, chi è nobile di nascita e chi non lo è, e nessuno muove
loro dei rimproveri […] benché cerchino di dare consigli senza
preparazione alcuna e senza avere alcun maestro».
Era questo un chiaro attacco contro il sistema democratico ateniese e
la competenza generalizzata che esso recava con sé, ma è
interessante notare come, da un capo all’altro della storia,
l’uomo, inserito in una dimensione politica dell’esistere, abbia
mostrato e dibattuto sulle medesime tematiche che oggi si palesano
dinanzi ai nostri occhi: competenza e formazione delle classi
dirigenti.
Tutti
possono essere competenti in politica? No, se riconosciamo che essa
sia un’arte, e a ciò, come tale, reclamerà i suoi artisti di
qualità, non d’occasione, estemporanei-dilettanti, di bassa lega o
in-competenti. Che uomini saranno, dunque, coloro cui si demanderà
la facoltà di «intervenire negli ingranaggi della storia?» - si
chiese nel 1919 Weber. «Si può dire che siano soprattutto tre le
qualità decisive per un uomo politico: passione, senso di
responsabilità, lungimiranza. Passione nel senso di Sachlichkeit,
dedizione appassionata ad una “causa” (Sache),
al dio o al demone che è suo padrone. […] non è certo sufficiente
la semplice passione, anche se autenticamente vissuta. Essa non crea
l’uomo politico se, nel servire una “causa”, non considera come
stella polare dell’agire la responsabilità
che ci si deve assumere nei confronti di essa. Da qui la necessità –
e questa è la qualità psicologica decisiva dell’uomo politico -
della lungimiranza,
e cioè la capacità di far agire su di sé la realtà con calma e
raccoglimento interiore, vale a dire: la distanza
dalle cose e dagli uomini». Il politico di professione dovrà, poi,
rifuggire i vizi della vanità, dell’assenza di una causa e della
responsabilità.
Un
punto nodale nell’affermazione di Weber riveste il “senso di
responsabilità”, connesso al principio di “etica della
responsabilità”, qualità cardine d’ogni politico gerufen,
chiamato, vocato ad essere e diventare ciò che è, l’artista della
polis.
Tuttavia ciò pone in essere la vexata
quaestio
del delicato equilibrio fra etica e politica. Dubbio contrastante,
fragile concordia o positiva concordia
discors?
Il
fiorentino Niccolò, nel Cinquecento, separò le due sfere e affrescò
nel XVIII capitolo de Il
Principe
l’essenza del politico come centauro, figura mitica, ibrida,
conflittuale già in se stessa, non uomo né bestia, ma sintesi e
dialettica delle due specie, travagliato moralmente nel dissidio
indeciso, lacerato del dover scegliere tra il «partirsi dal bene
potendo» ed «intrare nel male, necessitato», sempre attento ad
apparire «tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità,
tutto religione» per mantenere lo Stato. In realtà, la desueta
concezione de “il fine giustifica i mezzi”, peraltro non propria
dello statista fiorentino, ma di consuetudine attribuitagli, sarebbe,
a detta di un esimio studioso di Machiavelli, quale Gennaro Sasso,
non corretta, da superare e rifletterebbe anzi l’anima tormentata
di uno politico cinquecentesco che, laudator
del principio etico espresso nel lodevole atto «in uno principe di
mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia»,
“nondimanco” con rammarico si vide, tuttavia, costretto e oberato
da quella verità effettuale, l’esperienza, la quale mostrava e
conduceva amaramente al sentiero fratturato e scisso fra la teoria e
la prassi, l’uomo e la bestia, il valore e l’azione, l’ideale
politico teoretico e la necessaria prassi politica: il dipartirsi
di-verso fra etica e politica. Weber, in proposito, osservò che «chi
vuole fare politica in generale, e soprattutto chi vuole esercitare
la politica come professione, deve essere consapevole di quei
paradossi etici e della propria responsabilità per ciò che a lui
stesso può accadere sotto la loro pressione. Lo ripeto ancora: egli
entra in relazione con le potenze diaboliche che stanno in agguato
dietro a ogni violenza», dietro ad ogni greco kratos,
potere violento e degenere, avrebbero concluso i filosofi d’Atene.
Eppure il rischio di una degenerazione del potere in forme violente
esiste. Esiste nell’accentuarsi di una leadership politica
incontrollata, per cui la possibilità di sfociare in profetismo o
delirio totalitario o autoritario, qualora il leader agisca sulla
base di un’«etica della convinzione» - o «dei principi», come
la chiama Weber - non coerentemente affiancata da un’«etica della
responsabilità», vige costante. Una convinzione, fede o valore
agente sulla base di una cieca volontà che voglia di per se stessa
soltanto volere, non sostenuta dal momento etico responsabile devia
verso un uso del potere senza logica, come impero dell’inspiegabile
agire irrazionale, incurante delle conseguenze dell’azione. Il
filosofo Massimo Cacciari, in più occasioni, nel corso di alcune
relazioni tenute al “Centro
di Formazione Politica”
di Milano, ha sostenuto, parlando di Weber, che la chiave di ogni
dialettica democratica risieda nell’idea filosofica di valori
concepiti né come assoluti e dunque passibili, in qualsiasi momento,
di precipitare nell’abisso del relativismo, né come indifferenti,
indistinti, privi di ogni relazione a qualcosa. E tuttavia dei valori
devono esistere in politica, perché la politica stessa è l’arte
che edifica continue nuove scale di valori all’interno della
civitas.
È bene distinguere però tra valori etici radicali e conseguenti
comportamenti morali radicali, assoluti, unilaterali, non curanti
delle conseguenze, i quali, in virtù della loro radicalità, non
potranno essere fatti propri dal politico, chiamato invece sempre al
redde
rationem
del proprio agire ed esisteranno poi valori o fini commisurati ai
mezzi, i quali, sulla base di una fede o convinzione possono essere
agiti, perseguiti, corrisposti in maniera etica responsabile. Il
politico non diffonde il bene contro il male, non promuove crociate
contro infedeli, se fosse convinto di ciò in maniera indiscriminata
sarebbe altro da sé, non certo un politico, ma un predicatore
ispirato o esaltato, “convinto” – direbbe Weber -, un abile
banditore di voleri più alti a dimensione non d’uomo, un
irrazionale vicario dell’Assoluto, che agisce e fa agire, senza
propria ragione, in nome di una Altro qui
vult.
Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria e, nella
sovente inconciliabilità della pluralità di istanze, il politico
medierà e risponderà dei propri valori e del proprio operare,
razionalmente, responsabilmente.
Nella risposta della politica esisterà sempre una componente di
convinzione o valore, di valori che di necessità vorranno valere,
avere vigore e validità, significare.
Responsabilità,
in senso etimologico riconducibile al verbo latino respond?re,
si configura come quell’atto di risposta ad una vox
quaerens,
una voce che chiede, invoca risposte necessarie a problemi
incombenti. Il politico sarà colui che è capace di «rispondere
delle (prevedibili) conseguenze
del proprio agire», valutando risorse e mezzi funzionali agli scopi,
alla Sache,
e di stabilire una sympatheia
nei confronti dell’homo
quaerens,
deprivandosi della facoltà illusoria e demagogica di garantire,
pro-mittere,
mandare avanti certezze di per sé, per natura, impossibili. Il
politico agisce nella sfera del possibile, aspira semmai
all’impossibile, che appartiene agli dei o ai demagoghi o agli
eroi. Il demagogo promette sicurezza in-secura,
impossibilis;
un politico agente sulla base di un senso di responsabilità tenta di
rispondere a domande, nella consapevolezza che nemmeno i responsa
degli dei godono di certezza nel contesto della polis,
sempre connotato da situazioni di insecuritas,
in grado di scatenare episodi di kratos
violento, cui nessun adulatore del popolo saprebbe porre realmente
fine, pur promettendolo. A differenza della demagogia, la politica
non blandisce sordamente il popolo in un sorta di difettosa
comunicazione deficitaria di un ricevente nolente l’ascolto. La
risposta politica è capacità, volontà, dovere, disponibilità,
esito dell’ascolto, senso del non voler evitare le conseguenze
proprie dell’agire e il rifiuto di addossarle, qualora negative, ad
altri, veicolando una soluzione, che non necessariamente pretenda di
essere la
soluzione, ma che pure de-cide, nell’attimo supremo di Gordio, di
porsi da una parte piuttosto che dall’altra. La politica di per sé,
una politica autentica, convive ed è chiamata a far coesistere, in
tensione costante, il senso di responsabilità con il vigente senso o
stato di insicurezza presente all’interno di ogni polis,
centro, come si è detto, di istanze plurali, di-verse, cioè dirette
a fini opposti e discordi, da conciliare, da tessere in trama,
armonico ordito. Se il fine politico risiede nel mediare la
diversità, la pluralità, la varietà mutandole in concordia, nel
rispetto del legittimo sussistere della varietas
come tale, esso riconoscerà sempre il proprio status
di verità nella capacità di mantenere vivo e reale il polemos
interno alla comunità, senza sopprimerlo, garantendo la concordia
discors,
la varietas
in concordia,
l’Aufhebung
recante in sé tesi e antitesi. La politica stessa è conflitto, è
vocazione alla lotta,
alla creazione di un nuovo ordine, di una nuova forma, di una nuova
dimensione di valori: una nuova visione. Il politico votato alla
contesa della res
publica,
all’agone, appassionato, responsabile e lungimirante quale spazio
plasmerà come locus
designato ad accogliere e proporre la propria voce e l’altrui?
Sostenne Weber che non esiste altro modo di fare politica all’interno
della società secolarizzata se non attraverso il partito, il quale,
strutturato burocraticamente, sarà guidato da un leader carismatico,
idealista, che definirà i fini propri dell’agire politico entro
quel determinato organo di rappresentanza politica che il partito è.
I nostri moderni partiti paiono oggigiorno aver perso l’antico
lustro della rappresentanza, del luogo di formazione per divenire
piuttosto spettri rappresentativi di interessi personali e
clientelari o strutture burocratiche di consenso e leadership, avulse
dalla naturale osmosi tra popolo e potere. Il partito concorre con
metodo democratico a determinare la politica nazionale
e dovrebbe, di norma e di idea, fungere da struttura di selezione del
ceto dirigente, della classe politica, da strumento di formazione
degli elettori, di mobilitazione e propaganda, nonché assolvere a
funzioni di rappresentanza territoriale e comunicazione costante con
i cittadini, al servizio di una concreta prassi politica.
La drammaticità del quadro politico italiano, in termini
dirigenziali, popolari, riformistici, unitari, elettorali, sociali,
pedagogici, pone la necessità di un ripensamento radicale della
politica e delle sue funzioni, nel proposito di inaugurare una nuova
stagione politica; ma demandata a chi e su quale base? È necessario,
in via primaria, ripensare la politica come immersa nel Paese e il
Paese immerso in essa, risvegliando l’interesse dei cittadini alle
loro prerogative primarie come attori attivi nel processo di gestione
della polis,
riflettendo non tanto e non solo su cosa l’Italia può fare per
essi, ma che cosa essi stessi, in qualità di cives,
possono fare per l’Italia. Tuttavia, per porre mano a tale impresa
o missione, occorrerà creare dei cittadini responsabili e coscienti
di una comune appartenenza ad una koinonia
preziosa, alla cui cura attendere con impegno e consapevole
coinvolgimento. Non tutti sono nati per essere politici, ma tutti gli
Italiani nascono cittadini, cioè abitanti della civitas
e, in quanto tali, sono chiamati, anche in via rappresentativa, sulla
base delle nostre moderne democrazie, a interessarsi della politica,
a dibatterne in luoghi adibiti, siano essi costituiti da formazioni
partitiche o da centri di formazione politica. La fiducia nella
classe politica va scemando, il patto di fides
viene meno. La contraddittorietà del ripensare la politica, oggi, in
Italia trascina con sé una serie di strascichi o lacune storiche e
ideologiche mai completamente colmate: senso di appartenenza, senso
della nazione, formazione di cittadini consapevoli e politici degni
di tale nome, in un’espressione: formazione di una coscienza
nazionale e politica in Italia.
La
fragile concordia
Il
tema della formazione di una coscienza politica in Italia
richiederebbe l’elaborazione di una lirica da opporre a un
bilancio, come disse qualcuno, un bilancio politico ed economico
disastroso che meriterebbe un’elegia, se non addirittura un
epicedio. La questione ha radici profonde e risale forse ai giorni di
Cavour, Mazzini, Garibaldi, a quel Risorgimento che fece l’Italia
col proposito futuro di fare poi gli Italiani. Poi. Ma è lo Stato
che forma i cittadini o i cittadini danno vita allo Stato? Chi
detiene la priorità logica al creare?
Prescindendo
da considerazioni prettamente storiche o storiografiche, la mente
corre a quel giovane politico, antifascista italiano che, distante un
sessantennio dai giorni dell’unità, il 12 febbraio 1922, nel primo
numero della sua rivista, La
Rivoluzione liberale,
in quelle pagine che costituiscono il suo “manifesto”
programmatico, si rivolse ai lettori nell’intento di scuotere gli
animi e le menti al fine di formare una classe politica in Italia
dotata di «chiara coscienza delle sue tradizioni storiche e delle
esigenze sociali nascenti dalla partecipazione del popolo alla vita
dello Stato». A distanza di sessant’anni dalla proclamazione del
Regno, l’Italia appariva, ai tempi di Piero Gobetti, ancora priva,
e lo è tutt’oggi, di una chiara coscienza unitaria e questa
«incapacità a costituirsi in organismo unitario è essenzialmente
incapacità nei cittadini di formarsi una coscienza dello Stato e di
recare alla realtà vivente dell’organizzazione sociale la loro
pratica adesione». L’«edificazione» degli Italiani è assurta al
rango di rivoluzione fallita e se l’Italia fu fatta, passiva,
forzata all’unità in via elitaria, ma non pienamente partecipata
dal manzoniano “volgo disperso” senza nome,
mai ne vennero creati i veri cives,
mai tutti
furono resi consapevoli o si resero coscienti attori attivi
dell’evento occorso e del nuovo canone della loro esistenza, che è
poi simbolo di ciò che si definisce democrazia: la libertà.
L’indagine storica condotta da Gobetti deprecava tre istanze
deficitarie nell’Italia del suo tempo, antico retaggio
risorgimentale: mancava l’Italia di una classe dirigente politica;
di una vita economica moderna; di una coscienza e di un diretto
esercizio della libertà. «Privi di libertà, fummo privi di una
lotta politica aperta. Mancò il primo principio dell’educazione
politica ossia della scelta delle classi dirigenti. Mentre la
vitalità dello Stato, presupponendo l’adesione - in qualunque
forma - dei cittadini, si forma precisamente sulla capacità di
ognuno di agire liberamente e di realizzare proprio per questa via la
necessaria opera di partecipazione, controllo, opposizione».
La moderna idea di libertà s’affratella costante all’idea di
nazione, magistralmente sintetizzata, nella sua essenza, dai versi
dell’ode manzoniana, Marzo
1821:
«una d’arme, di lingua, d’altare,/di memorie, di sangue e di
cor» e nel comune sacro sentire nazionale, da più parti,
nell’Ottocento, si levarono voci a cantar la volontà d’unire il
“santo suolo” come forma visibile di quel pathos
invisibile e visionario che ne alimentava le speranze e le illusioni,
intese come forme, nuove idee. Così, pure, ricorda il vaticanista
Tornielli in una sua recente opera, il prete piemontese Vincenzo
Gioberti, contemporaneo di Manzoni, «fu uno dei primi a pensare la
“nazione” italiana, definendola “una di lingua, di lettere, di
religione, di genio nazionale, di pensiero scientifico, di costume
cittadino, di accordo pubblico e privato tra i vari Stati che la
compongono».
E quell’“altare”, che l’ode manzoniana vedeva quale simbolo
d’una stessa e sola religione per la comune patria, fu pure
baluardo del cattolicesimo liberale dell’epoca, espresso dal
neoguelfo progetto federativo di Gioberti, contemplante la presenza
presidenziale del pontefice, quale reggitor delle sorti d’Italia
unita. Se il nesso fra Stato e Chiesa apparve all’epoca segno di
una “fragile concordia”, che dire del discinto legame fra popolo
e nazione vissuto oggi più che mai, come un tempo, dall’italiano
volgo smarrito, diviso? Se nel Risorgimento, ricordò Chabod, le
imprese di Legnano s’imponevano a vessilli nazionali paradigmatici
di unità, libertà e vigore antichi contro il dominio straniero,
oggi quelle stesse testimonianze vengono imposte quali principi di
scissione e discordia, quasi che la nazione fosse nient’altro che
un sentire disperso, svanito o mai esistito.
Che valori ha oggi l’Italia, che politica e politici possiede o
invoca, che concezione ha del bene comune e chi s’è destato dal
torpore invocando un nuovo unitario sentire?
I
recenti festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia e la
grande partecipazione di popolo ad essi hanno forse rappresentato un
confortante prodromo commemorativo di un Paese desto nel sentirsi
parte viva della nazione e le benedizioni di una Chiesa rinnovata dal
dissidio alla conciliazione, unita anch’essa nelle celebrazioni
d’unità nazionale, hanno posto l’attenzione sull’esistenza
d’un comune afflato, una memoria condivisa che unisce
“spiritualmente” le indipendenti e sovrane istituzioni. La
condivisione di valori comuni, afferma la Chiesa, «è fonte di
comunione a livello spirituale e morale»,
e proprio quando il senso dell’essere italiani è parso precipitare
in crisi, proprio allora la domanda sul senso ha ripreso vigore,
instaurando una communio
presente nel tentativo di colmare, più o meno consciamente, il vuoto
di senso, l’assenza di senso. La crisi dei valori ha condotto a
riflettere sulle ampie dimensioni costitutive dell’essere e
dell’agire umano in ogni campo, a partire da quello che è l’ambito
principe del vivere umano associato, la politica. La fragile, si
spera antica, concordia fra Stato e Chiesa ha visto sorgere l’idea
d’una “chance” per l’inaugurarsi di una nuova stagione
politica che veda impegnati i cattolici nella gestione partecipativa
dello Stato. Può essere originale riscontrare come il Cristianesimo,
fin dalle sue origini, assurga nella storia a via tra le vie, in
particolari situazioni di crisi dell’umanità: dalle speranze
deluse dell’aldilà pagano, al crollo dell’Impero di Roma e ancor
prima al fallimento imperiale dettato dalla translatio
imperii
costantiniana o, per arrivare in tempi recenti, al Risorgimento, alle
due grandi guerre o alla fine della Prima e Seconda Repubblica in
Italia. Sempre la Chiesa appare in momenti di crisi, sentendosi
chiamata a buon diritto a rispondere alla domanda sul senso, essendo
«esperta in umanità», in virtù d’un dettato morale che le
impone una missione di servizio rivolta all’uomo e allo Stato,
ponendosi non come ostacolo inficiante la laicità della società
moderna, bensì come sua risorsa. La questione è complessa.
Il
17 settembre 2011 a Todi «dei cristiani» si sono incontrati «per
ragionare insieme sulla società portando nel cuore la realtà della
gente e i criteri della Dottrina sociale della Chiesa […]consapevoli
di avere qualcosa di proprio da dire, qualcosa di decisivo per il
bene dell’umanità».
Quali possano essere gli esiti del rinovellare una discesa dei
cattolici in politica, di un nuovo “patto Gentiloni”, non è dato
sapere, per ora, concretamente. Tuttavia, in via teoretica, il
discorso può essere affrontato e concertato sulla base di condizioni
edificanti e condivise, universalmente riconoscibili dallo Stato
italiano e dalla Chiesa cattolica, concernenti idee e strumenti di
definizione e gestione del potere. Si potrà ragionare sul concetto
di bene comune, sul valore dei valori, sulla necessità di un
consapevole sentire nazionale unitario, sulla formazione accorta e
fondamentale della classe politica e dei cittadini, contrastando il
vigente e diffuso dilettantismo politico; si rifletterà sul servizio
dell’autorità politica all’interesse generale, sul riassetto
ontologico della struttura-partito, sulla collaborazione fra Chiesa e
comunità politica in un identico, comune pensare «la centralità e
l’intangibile dignità della persona umana in ogni ambito e
manifestazione della socialità».
Il reale problema che dev’essere affrontato non riguarda formule,
competizioni valoriali o revisione dei sistemi elettorali e non si
tratta nemmeno e soltanto di ridiscutere una questione etica o il
rapporto annoso fra Stato e Chiesa. In gioco c’è l’educazione di
un popolo che oggi appare in crisi e disorientato, come da più parti
è stato ammonito. La paideia
dell’Italia e degli italiani è la vera questione. Se si prescinde
da questo ogni altro impianto di dibattito rischierà costantemente
di crollare su se stesso, perché edificato su fondamenta
inconsistenti o inesistenti.
Conclusione
Che
cos’è la politica? La figura del politico di professione ritratta
da Max Weber può costituire un valido modello pedagogico funzionale
alla creazione di una politica professionale e di una professionalità
in politica? Quanto si deve ancora conquistare in termini di
coscienza nazionale e formazione cosciente d’essa? Come
reintrodurre sul tavolo del dibattito la questione morale e le sue
implicazioni politiche? Quale etica per la politica? Dovrebbe
esistere in ogni uomo quella legge morale paolina o kantiana che
regola l’agire pratico dell’individuo e che s’impone in esso
come imperativo categorico, una morale che implica intenzionale
partecipazione interiore all’azione, istituendo l’ideale comunità
del regno dei fini? La risposta può accettare le valevoli
implicazioni della filosofia di Kant in termini di dignità della
persona, la quale, protagonista dignitaria della societas
humana,
detiene il primato dell’essere un fine e mai un mezzo, incontrando
le esigenze della laica società civile, in unione agli intenti etici
della Chiesa? Che ruolo può rivestire il cattolico in politica oggi,
in cui la lettura dei segni di questi tempi induce a distogliere lo
sguardo da una visione di crisi e disfacimento?
La
politica, arte del buon governo, non è solo espressione di una
volontà di dominio, essa pertiene alla sfera della ragione, la
ratio,
una ragione naturale che appartiene ad ogni uomo e, se da una parte
la fede, i cattolici possono allumare di valori etici particolari,
cristiani la politica, tuttavia il campo politico non può essere
traslato dalla Ragione alla Fede perché i due ambiti, per natura,
sono e devono rimanere autonomi, separati, “indipendenti e
sovrani”, come recita l’art. 7 della Costituzione Italiana,
seppur in un reciproco riconoscimento.
Il vettore di convergenza fra etica e politica può forse
incontrarsi, in una sorta di summa
teorica, nella persona, nella dimensione umana morale quale culmine
dell’Ideale che si cala nel Reale, dell’Assoluto che si umanizza
in suprema ricomprensione del theorein
e del prassein,
nel senso etico-politico della responsabilità. La nozione di
Persona
rappresenta nell’uomo la capacità di intuire la propria identità
rivolgendo lo sguardo ad
alium,
nello specchio dell’altro, in riflessione-relazione con esso. La
persona è sempre syn,
cum,
anello di congiunzione con l’altro, nei cui confronti è sempre
responsabile e dunque, costantemente, in qualche misura, libera
nell’essere limitata da tale rapporto d’affratellamento
alteritario. Esiste poi un altro tratto comune che lega la politica
e la religione, la religione cristiana in particolare: la diakonia,
lo spirito di servizio, un servizio al servizio del Bene comune.
Quest’ultimo visto come la fusione sinergica di teoria e prassi,
dover essere ed essere, etica e politica, unità nella differenza.
Se infatti si considera la politica nella sua veste originaria,
greca, essa è l’arte di creare l’armonia all’interno della
polis,
riunificando le istanze più di-verse, funzionando quindi come spazio
di mediazione, in vista del fine più alto cui la civitas
possa aspirare, l’homonoia,
la concordia; in questo senso la religione cristiana appare quanto di
idealmente più prossimo alla politica, intesa come luogo d’ascolto
e decisione nella pluralità, proprio per l’innata dimensione di
Alterità, di dialogo, accoglienza e apertura all’Altro, che il
Cristianesimo connatura a sé, aspirando alla trascendenza,
all’umanamente impossibile. Così anche la politica, in ultima
analisi, scriveva Weber, anela, in qualche misura, a una sorta di
“trascendenza”, in quanto «consiste in un lento e tenace
superamento di dure difficoltà da compiersi con passione e
discernimento al tempo stesso. È certo del tutto esatto, e
confermato da ogni esperienza storica, che non si realizzerebbe ciò
che è possibile se nel mondo non si aspirasse sempre
all’impossibile».