venerdì 24 agosto 2012

POLO S. AGOSTINO - "GLADIATORI: arte e spettacolo nell'antica Roma"






"GLADIATORI:

arte e spettacolo nell'antica Roma"


- Incontro di Cultura e Spettacolo -



Relatore: Prof.ssa Laura Balestra


Ascoli Piceno - Polo S. Agostino
Corso Mazzini, 90


4 settembre 2012, 

ore 21.15 




Al termine dell'incontro seguirà dimostrazione di 

combattimento gladiatorio

 dal vivo, 
ad opera dei Gladiatori di "Compagnia d'arme Grifone della Scala
LVDVS PICENVS
(http://www.grifonedellascala.com/
http://www.coloniaiuliafanestris.com/gladiatura/bellatores/).

INGRESSO LIBERO


In caso di pioggia il convegno si svolgerà nella Sala Conferenze interna del Polo,
mentre il COMBATTIMENTO GLADIATORIO avrà luogo all'esterno, nel suggestivo Chiostro
adiacente alla Sala. Il pubblico potrà assistervi riparato sotto gli ampi porticati che si affacciano sul Chiostro.



lunedì 20 agosto 2012

Rivista CIVITAS n. 1-2012 (Ricerca storica e cultura politica)




Forma mentis politica:
la questione della formazione all’arte del governo

(di Laura Balestra)


Cos’è una forma? E cosa può essere ricompreso nell’idea di una forma applicata ad una mente che pensa sub specie politica? Il filosofo Aristotele definiva la forma come morphe, schema o eidos, aspetto, figura o natura propria di una cosa: essenza. Qual è l’essenza necessaria, naturale del pensare politico? E quali sono i canoni formativi di una tale razionalità politica? Rispondere ai seguenti interrogativi pone in essere una quaestio primaria che è precipuo fondamento argomentativo di tale intervento: che cos’è la politica?
La politica è invenzione greca e dunque greco è il termine che la designa: i Greci la chiamavano politike techne. Techne vuol dire Arte. La politica è un’arte, l’arte del buon governo della polis e il politico è «l’artista per eccellenza».1 I Greci avevano elaborato questa visione della politica e, successivamente della filosofia applicata alla politica, come uno spazio di mediazione all’interno del quale istanze di-verse, dis-cordi, venivano soppesate, raffrontate e, qualora fossero state contrapposte, mediate, de-cise, cercando di arrivare ad una soluzione che non implicasse violenza, che non degenerasse in kratos, potere violento. Lo spazio politico diveniva così koinon, comune, dando vita ad una koinonia, una comunità in cui tutti, nobili e non-nobili erano uguali tra loro nella reciproca, identica subordinazione a qualcosa di superiore ad essi: il nomos, la legge. Lo scopo dell’azione politica antica era agito in vista della creazione di homonoia, armonia nella città, nell’intenzione a priori e a posteriori di forgiare buoni cittadini: tale era l’alto effetto dell’ars politica degli antichi. Il fallimento constatato della politica italiana, nello specifico, sospinge a ripensare forme e luoghi dell’agire politico, con l’imperativo di ritesserne le fila ab origine, ab imis, dalle fondamenta crollate e, tuttavia, da ricostituire. L’attingere al passato è sempre analisi del presente. Cosa è rimasto oggi del nobile ideale greco in quelle vie che portano alle desolate piazze della nostra politica? L’agora greca, centro vitale della vita activa antica, era il luogo dialettico e sintetico della politica classica, lo spazio di discussione e formazione delle idee e dei cittadini. La moderna agora, ammesso che ne esista ancora una, è un contenitore privo di contenuto, una forma priva della sua materia, una teoria senza prassi, un’assemblea senza astanti, un luogo di relazioni deprivato dei suoi referenti. La piazza centro di dialogo e il dialogo al centro della piazza: questa la dinamica forza della politica attiva antica, questo il sentiero disperso dalla politica attuale. Se la realtà relazionale della piazza si svuota e de-politicizza, in che modo i politici potranno ridefinire il limes della politicità umana ed entro quale spazio? Una nuova agora, una struttura partitica, un centro di formazione politica? La politica ha bisogno, per natura, di una dimensione reale aperta all’ascolto attivo e al discorso agente, pena la perdita stessa della sua identità artistica, dialogica, relazionale. La decadenza delle essenze politiche classiche nella società odierna pone il problema di una ridefinizione delle moderne istanze politiche in termini di scienza, arte, pratica, metodi, valori, formazione e professionalità delle classi dirigenti. Ogni aspetto della vita associata richiede una profonda comprensione della politica e delle dinamiche politiche, quali parti integranti del nostro essere e del nostro agire.


La politica come professione

La politica come professione è il titolo di una conferenza tenuta dal sociologo tedesco Max Weber il 28 gennaio 1919 a Monaco di Baviera e, seppur pronunciata in un’epoca storica lontana, nel buio istante della crisi della Germania imperiale e agli albori della Repubblica di Weimar, contiene una riflessione magistrale o, se vogliamo, una serie di “idealtipi” pregevoli sulla politica, i politici e le formazioni partitiche.
La politica, per Weber, è non solo una professione, ma, nello specifico, una vocazione, come esplicitato nel titolo originale del suo intervento Politik als Beruf, dove il tedesco Beruf è espressione di un’ambivalenza lessicale oscillante tra «mestiere» e «chiamata». In secundis il sociologo definisce la politica come un’«attività autonomamente direttiva»2, vòlta a dirigere e a influire sulla direzione dello Stato, che è dunque il locus specifico d’azione della politica. Fare della politica la propria professione, il proprio ethos o il proprio daimon, può avvenire secondo due modalità: «O si vive “per” la politica, o si vive “della” politica. Ma un modo non esclude l’altro. Chi vive “per” la politica, ne fa in un senso intimo la propria vita […]. “Della” politica come professione vive chi cerca di farne una fonte duratura di reddito; “per” la politica, invece, vive colui per il quale ciò non accade». Quale delle due way of life sia più condivisibile o incontri e assorba l’una nell’altra non dovrebbe essere in questione, benché secoli prima di Weber un suo illustre predecessore, Aristotele, avesse avuto pazienza di riflettere su qualcosa di simile, allorché, tuonando contro i “falsi politici”, scrisse: «la maggioranza di coloro che si dedicano alla politica ricevono questa denominazione non correttamente: infatti essi non sono politici secondo verità, perché l’uomo politico è colui che sceglie le azioni belle per se stesse, mentre la maggior parte sceglie questo genere di vita in vista delle ricchezze e del desiderio di potere».3 È sorprendente l’attualità del pensiero aristotelico? Piuttosto direi che attualizza, effettualizza dall’antichità una impasse che, nel corso dei secoli, non ha mai trovato, o forse neanche cercato, soluzione: perché si fa politica e sulla base di quale idea o formazione? Al fine di non scadere nel dilettantismo o nella «politica d’occasione», avrebbe detto Weber, subitaneo si richiede un approfondimento di quanto pro-blematizzato, cioè etimologicamente, “gettato davanti”.4 Può la politica, un’arte del buon governo, essere esercitata con l’intenzione di influenzare la gestione del potere sia come weberiani “politici d’occasione” o, nel caso peggiore, dilettanti sia come “politici di professione”?
«Politici “d’occasione” lo siamo tutti, quando deponiamo la nostra scheda elettorale o manifestiamo in maniera simile la nostra volontà, per esempio attraverso l’applauso o la contestazione in un’assemblea “politica”, quando teniamo un discorso “politico”. Per molti individui, tutto il loro rapporto con la politica si restringe a questo. Politici dilettanti sono oggi, per esempio, tutti quegli uomini di fiducia e dirigenti di associazioni partitiche politiche che solitamente esercitano tale attività solo in casi di necessità e non ne traggono in prima linea alcun vantaggio materiale né ideale per la loro vita». Tale è la “politica d’occasione” o il dilettantismo politico, assai simile peraltro alla descrizione dell’ekklesia greca affrescata da Platone in un passo del dialogo Protagora: «quando si debba deliberare sul modo di condurre gli affari della città, indifferentemente si leva a dare il suo consiglio un architetto, un fabbro, un calzolaio, un commerciante, un marinaio, un ricco, un povero, chi è nobile di nascita e chi non lo è, e nessuno muove loro dei rimproveri […] benché cerchino di dare consigli senza preparazione alcuna e senza avere alcun maestro».5 Era questo un chiaro attacco contro il sistema democratico ateniese e la competenza generalizzata che esso recava con sé, ma è interessante notare come, da un capo all’altro della storia, l’uomo, inserito in una dimensione politica dell’esistere, abbia mostrato e dibattuto sulle medesime tematiche che oggi si palesano dinanzi ai nostri occhi: competenza e formazione delle classi dirigenti.
Tutti possono essere competenti in politica? No, se riconosciamo che essa sia un’arte, e a ciò, come tale, reclamerà i suoi artisti di qualità, non d’occasione, estemporanei-dilettanti, di bassa lega o in-competenti. Che uomini saranno, dunque, coloro cui si demanderà la facoltà di «intervenire negli ingranaggi della storia?» - si chiese nel 1919 Weber. «Si può dire che siano soprattutto tre le qualità decisive per un uomo politico: passione, senso di responsabilità, lungimiranza. Passione nel senso di Sachlichkeit, dedizione appassionata ad una “causa” (Sache), al dio o al demone che è suo padrone. […] non è certo sufficiente la semplice passione, anche se autenticamente vissuta. Essa non crea l’uomo politico se, nel servire una “causa”, non considera come stella polare dell’agire la responsabilità che ci si deve assumere nei confronti di essa. Da qui la necessità – e questa è la qualità psicologica decisiva dell’uomo politico - della lungimiranza, e cioè la capacità di far agire su di sé la realtà con calma e raccoglimento interiore, vale a dire: la distanza dalle cose e dagli uomini». Il politico di professione dovrà, poi, rifuggire i vizi della vanità, dell’assenza di una causa e della responsabilità.
Un punto nodale nell’affermazione di Weber riveste il “senso di responsabilità”, connesso al principio di “etica della responsabilità”, qualità cardine d’ogni politico gerufen, chiamato, vocato ad essere e diventare ciò che è, l’artista della polis. Tuttavia ciò pone in essere la vexata quaestio del delicato equilibrio fra etica e politica. Dubbio contrastante, fragile concordia o positiva concordia discors?
Il fiorentino Niccolò, nel Cinquecento, separò le due sfere e affrescò nel XVIII capitolo de Il Principe l’essenza del politico come centauro, figura mitica, ibrida, conflittuale già in se stessa, non uomo né bestia, ma sintesi e dialettica delle due specie, travagliato moralmente nel dissidio indeciso, lacerato del dover scegliere tra il «partirsi dal bene potendo» ed «intrare nel male, necessitato», sempre attento ad apparire «tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione» per mantenere lo Stato. In realtà, la desueta concezione de “il fine giustifica i mezzi”, peraltro non propria dello statista fiorentino, ma di consuetudine attribuitagli, sarebbe, a detta di un esimio studioso di Machiavelli, quale Gennaro Sasso, non corretta, da superare e rifletterebbe anzi l’anima tormentata di uno politico cinquecentesco che, laudator del principio etico espresso nel lodevole atto «in uno principe di mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia», “nondimanco” con rammarico si vide, tuttavia, costretto e oberato da quella verità effettuale, l’esperienza, la quale mostrava e conduceva amaramente al sentiero fratturato e scisso fra la teoria e la prassi, l’uomo e la bestia, il valore e l’azione, l’ideale politico teoretico e la necessaria prassi politica: il dipartirsi di-verso fra etica e politica. Weber, in proposito, osservò che «chi vuole fare politica in generale, e soprattutto chi vuole esercitare la politica come professione, deve essere consapevole di quei paradossi etici e della propria responsabilità per ciò che a lui stesso può accadere sotto la loro pressione. Lo ripeto ancora: egli entra in relazione con le potenze diaboliche che stanno in agguato dietro a ogni violenza», dietro ad ogni greco kratos, potere violento e degenere, avrebbero concluso i filosofi d’Atene. Eppure il rischio di una degenerazione del potere in forme violente esiste. Esiste nell’accentuarsi di una leadership politica incontrollata, per cui la possibilità di sfociare in profetismo o delirio totalitario o autoritario, qualora il leader agisca sulla base di un’«etica della convinzione» - o «dei principi», come la chiama Weber - non coerentemente affiancata da un’«etica della responsabilità», vige costante. Una convinzione, fede o valore agente sulla base di una cieca volontà che voglia di per se stessa soltanto volere, non sostenuta dal momento etico responsabile devia verso un uso del potere senza logica, come impero dell’inspiegabile agire irrazionale, incurante delle conseguenze dell’azione. Il filosofo Massimo Cacciari, in più occasioni, nel corso di alcune relazioni tenute al “Centro di Formazione Politica” di Milano, ha sostenuto, parlando di Weber, che la chiave di ogni dialettica democratica risieda nell’idea filosofica di valori concepiti né come assoluti e dunque passibili, in qualsiasi momento, di precipitare nell’abisso del relativismo, né come indifferenti, indistinti, privi di ogni relazione a qualcosa. E tuttavia dei valori devono esistere in politica, perché la politica stessa è l’arte che edifica continue nuove scale di valori all’interno della civitas. È bene distinguere però tra valori etici radicali e conseguenti comportamenti morali radicali, assoluti, unilaterali, non curanti delle conseguenze, i quali, in virtù della loro radicalità, non potranno essere fatti propri dal politico, chiamato invece sempre al redde rationem del proprio agire ed esisteranno poi valori o fini commisurati ai mezzi, i quali, sulla base di una fede o convinzione possono essere agiti, perseguiti, corrisposti in maniera etica responsabile. Il politico non diffonde il bene contro il male, non promuove crociate contro infedeli, se fosse convinto di ciò in maniera indiscriminata sarebbe altro da sé, non certo un politico, ma un predicatore ispirato o esaltato, “convinto” – direbbe Weber -, un abile banditore di voleri più alti a dimensione non d’uomo, un irrazionale vicario dell’Assoluto, che agisce e fa agire, senza propria ragione, in nome di una Altro qui vult.6 Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria e, nella sovente inconciliabilità della pluralità di istanze, il politico medierà e risponderà dei propri valori e del proprio operare, razionalmente, responsabilmente.7 Nella risposta della politica esisterà sempre una componente di convinzione o valore, di valori che di necessità vorranno valere, avere vigore e validità, significare.
Responsabilità, in senso etimologico riconducibile al verbo latino respond?re, si configura come quell’atto di risposta ad una vox quaerens, una voce che chiede, invoca risposte necessarie a problemi incombenti. Il politico sarà colui che è capace di «rispondere delle (prevedibili) conseguenze del proprio agire», valutando risorse e mezzi funzionali agli scopi, alla Sache, e di stabilire una sympatheia nei confronti dell’homo quaerens, deprivandosi della facoltà illusoria e demagogica di garantire, pro-mittere, mandare avanti certezze di per sé, per natura, impossibili. Il politico agisce nella sfera del possibile, aspira semmai all’impossibile, che appartiene agli dei o ai demagoghi o agli eroi. Il demagogo promette sicurezza in-secura, impossibilis; un politico agente sulla base di un senso di responsabilità tenta di rispondere a domande, nella consapevolezza che nemmeno i responsa degli dei godono di certezza nel contesto della polis, sempre connotato da situazioni di insecuritas, in grado di scatenare episodi di kratos violento, cui nessun adulatore del popolo saprebbe porre realmente fine, pur promettendolo. A differenza della demagogia, la politica non blandisce sordamente il popolo in un sorta di difettosa comunicazione deficitaria di un ricevente nolente l’ascolto. La risposta politica è capacità, volontà, dovere, disponibilità, esito dell’ascolto, senso del non voler evitare le conseguenze proprie dell’agire e il rifiuto di addossarle, qualora negative, ad altri, veicolando una soluzione, che non necessariamente pretenda di essere la soluzione, ma che pure de-cide, nell’attimo supremo di Gordio, di porsi da una parte piuttosto che dall’altra. La politica di per sé, una politica autentica, convive ed è chiamata a far coesistere, in tensione costante, il senso di responsabilità con il vigente senso o stato di insicurezza presente all’interno di ogni polis, centro, come si è detto, di istanze plurali, di-verse, cioè dirette a fini opposti e discordi, da conciliare, da tessere in trama, armonico ordito. Se il fine politico risiede nel mediare la diversità, la pluralità, la varietà mutandole in concordia, nel rispetto del legittimo sussistere della varietas come tale, esso riconoscerà sempre il proprio status di verità nella capacità di mantenere vivo e reale il polemos interno alla comunità, senza sopprimerlo, garantendo la concordia discors, la varietas in concordia, l’Aufhebung recante in sé tesi e antitesi. La politica stessa è conflitto, è vocazione alla lotta8, alla creazione di un nuovo ordine, di una nuova forma, di una nuova dimensione di valori: una nuova visione. Il politico votato alla contesa della res publica, all’agone, appassionato, responsabile e lungimirante quale spazio plasmerà come locus designato ad accogliere e proporre la propria voce e l’altrui? Sostenne Weber che non esiste altro modo di fare politica all’interno della società secolarizzata se non attraverso il partito, il quale, strutturato burocraticamente, sarà guidato da un leader carismatico, idealista, che definirà i fini propri dell’agire politico entro quel determinato organo di rappresentanza politica che il partito è. I nostri moderni partiti paiono oggigiorno aver perso l’antico lustro della rappresentanza, del luogo di formazione per divenire piuttosto spettri rappresentativi di interessi personali e clientelari o strutture burocratiche di consenso e leadership, avulse dalla naturale osmosi tra popolo e potere. Il partito concorre con metodo democratico a determinare la politica nazionale9 e dovrebbe, di norma e di idea, fungere da struttura di selezione del ceto dirigente, della classe politica, da strumento di formazione degli elettori, di mobilitazione e propaganda, nonché assolvere a funzioni di rappresentanza territoriale e comunicazione costante con i cittadini, al servizio di una concreta prassi politica.10 La drammaticità del quadro politico italiano, in termini dirigenziali, popolari, riformistici, unitari, elettorali, sociali, pedagogici, pone la necessità di un ripensamento radicale della politica e delle sue funzioni, nel proposito di inaugurare una nuova stagione politica; ma demandata a chi e su quale base? È necessario, in via primaria, ripensare la politica come immersa nel Paese e il Paese immerso in essa, risvegliando l’interesse dei cittadini alle loro prerogative primarie come attori attivi nel processo di gestione della polis, riflettendo non tanto e non solo su cosa l’Italia può fare per essi, ma che cosa essi stessi, in qualità di cives, possono fare per l’Italia. Tuttavia, per porre mano a tale impresa o missione, occorrerà creare dei cittadini responsabili e coscienti di una comune appartenenza ad una koinonia preziosa, alla cui cura attendere con impegno e consapevole coinvolgimento. Non tutti sono nati per essere politici, ma tutti gli Italiani nascono cittadini, cioè abitanti della civitas e, in quanto tali, sono chiamati, anche in via rappresentativa, sulla base delle nostre moderne democrazie, a interessarsi della politica, a dibatterne in luoghi adibiti, siano essi costituiti da formazioni partitiche o da centri di formazione politica. La fiducia nella classe politica va scemando, il patto di fides viene meno. La contraddittorietà del ripensare la politica, oggi, in Italia trascina con sé una serie di strascichi o lacune storiche e ideologiche mai completamente colmate: senso di appartenenza, senso della nazione, formazione di cittadini consapevoli e politici degni di tale nome, in un’espressione: formazione di una coscienza nazionale e politica in Italia.


La fragile concordia

Il tema della formazione di una coscienza politica in Italia richiederebbe l’elaborazione di una lirica da opporre a un bilancio, come disse qualcuno, un bilancio politico ed economico disastroso che meriterebbe un’elegia, se non addirittura un epicedio. La questione ha radici profonde e risale forse ai giorni di Cavour, Mazzini, Garibaldi, a quel Risorgimento che fece l’Italia col proposito futuro di fare poi gli Italiani. Poi. Ma è lo Stato che forma i cittadini o i cittadini danno vita allo Stato? Chi detiene la priorità logica al creare?
Prescindendo da considerazioni prettamente storiche o storiografiche, la mente corre a quel giovane politico, antifascista italiano che, distante un sessantennio dai giorni dell’unità, il 12 febbraio 1922, nel primo numero della sua rivista, La Rivoluzione liberale, in quelle pagine che costituiscono il suo “manifesto” programmatico, si rivolse ai lettori nell’intento di scuotere gli animi e le menti al fine di formare una classe politica in Italia dotata di «chiara coscienza delle sue tradizioni storiche e delle esigenze sociali nascenti dalla partecipazione del popolo alla vita dello Stato». A distanza di sessant’anni dalla proclamazione del Regno, l’Italia appariva, ai tempi di Piero Gobetti, ancora priva, e lo è tutt’oggi, di una chiara coscienza unitaria e questa «incapacità a costituirsi in organismo unitario è essenzialmente incapacità nei cittadini di formarsi una coscienza dello Stato e di recare alla realtà vivente dell’organizzazione sociale la loro pratica adesione». L’«edificazione» degli Italiani è assurta al rango di rivoluzione fallita e se l’Italia fu fatta, passiva, forzata all’unità in via elitaria, ma non pienamente partecipata dal manzoniano “volgo disperso” senza nome11, mai ne vennero creati i veri cives, mai tutti furono resi consapevoli o si resero coscienti attori attivi dell’evento occorso e del nuovo canone della loro esistenza, che è poi simbolo di ciò che si definisce democrazia: la libertà. L’indagine storica condotta da Gobetti deprecava tre istanze deficitarie nell’Italia del suo tempo, antico retaggio risorgimentale: mancava l’Italia di una classe dirigente politica; di una vita economica moderna; di una coscienza e di un diretto esercizio della libertà. «Privi di libertà, fummo privi di una lotta politica aperta. Mancò il primo principio dell’educazione politica ossia della scelta delle classi dirigenti. Mentre la vitalità dello Stato, presupponendo l’adesione - in qualunque forma - dei cittadini, si forma precisamente sulla capacità di ognuno di agire liberamente e di realizzare proprio per questa via la necessaria opera di partecipazione, controllo, opposizione».12 La moderna idea di libertà s’affratella costante all’idea di nazione, magistralmente sintetizzata, nella sua essenza, dai versi dell’ode manzoniana, Marzo 1821: «una d’arme, di lingua, d’altare,/di memorie, di sangue e di cor» e nel comune sacro sentire nazionale, da più parti, nell’Ottocento, si levarono voci a cantar la volontà d’unire il “santo suolo” come forma visibile di quel pathos invisibile e visionario che ne alimentava le speranze e le illusioni, intese come forme, nuove idee. Così, pure, ricorda il vaticanista Tornielli in una sua recente opera, il prete piemontese Vincenzo Gioberti, contemporaneo di Manzoni, «fu uno dei primi a pensare la “nazione” italiana, definendola “una di lingua, di lettere, di religione, di genio nazionale, di pensiero scientifico, di costume cittadino, di accordo pubblico e privato tra i vari Stati che la compongono».13 E quell’“altare”, che l’ode manzoniana vedeva quale simbolo d’una stessa e sola religione per la comune patria, fu pure baluardo del cattolicesimo liberale dell’epoca, espresso dal neoguelfo progetto federativo di Gioberti, contemplante la presenza presidenziale del pontefice, quale reggitor delle sorti d’Italia unita. Se il nesso fra Stato e Chiesa apparve all’epoca segno di una “fragile concordia”, che dire del discinto legame fra popolo e nazione vissuto oggi più che mai, come un tempo, dall’italiano volgo smarrito, diviso? Se nel Risorgimento, ricordò Chabod, le imprese di Legnano s’imponevano a vessilli nazionali paradigmatici di unità, libertà e vigore antichi contro il dominio straniero14, oggi quelle stesse testimonianze vengono imposte quali principi di scissione e discordia, quasi che la nazione fosse nient’altro che un sentire disperso, svanito o mai esistito.15 Che valori ha oggi l’Italia, che politica e politici possiede o invoca, che concezione ha del bene comune e chi s’è destato dal torpore invocando un nuovo unitario sentire?
I recenti festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia e la grande partecipazione di popolo ad essi hanno forse rappresentato un confortante prodromo commemorativo di un Paese desto nel sentirsi parte viva della nazione e le benedizioni di una Chiesa rinnovata dal dissidio alla conciliazione, unita anch’essa nelle celebrazioni d’unità nazionale, hanno posto l’attenzione sull’esistenza d’un comune afflato, una memoria condivisa che unisce “spiritualmente” le indipendenti e sovrane istituzioni. La condivisione di valori comuni, afferma la Chiesa, «è fonte di comunione a livello spirituale e morale»16, e proprio quando il senso dell’essere italiani è parso precipitare in crisi, proprio allora la domanda sul senso ha ripreso vigore, instaurando una communio presente nel tentativo di colmare, più o meno consciamente, il vuoto di senso, l’assenza di senso. La crisi dei valori ha condotto a riflettere sulle ampie dimensioni costitutive dell’essere e dell’agire umano in ogni campo, a partire da quello che è l’ambito principe del vivere umano associato, la politica. La fragile, si spera antica, concordia fra Stato e Chiesa ha visto sorgere l’idea d’una “chance” per l’inaugurarsi di una nuova stagione politica che veda impegnati i cattolici nella gestione partecipativa dello Stato. Può essere originale riscontrare come il Cristianesimo, fin dalle sue origini, assurga nella storia a via tra le vie, in particolari situazioni di crisi dell’umanità: dalle speranze deluse dell’aldilà pagano, al crollo dell’Impero di Roma e ancor prima al fallimento imperiale dettato dalla translatio imperii costantiniana o, per arrivare in tempi recenti, al Risorgimento, alle due grandi guerre o alla fine della Prima e Seconda Repubblica in Italia. Sempre la Chiesa appare in momenti di crisi, sentendosi chiamata a buon diritto a rispondere alla domanda sul senso, essendo «esperta in umanità», in virtù d’un dettato morale che le impone una missione di servizio rivolta all’uomo e allo Stato17, ponendosi non come ostacolo inficiante la laicità della società moderna, bensì come sua risorsa. La questione è complessa.
Il 17 settembre 2011 a Todi «dei cristiani» si sono incontrati «per ragionare insieme sulla società portando nel cuore la realtà della gente e i criteri della Dottrina sociale della Chiesa […]consapevoli di avere qualcosa di proprio da dire, qualcosa di decisivo per il bene dell’umanità».18 Quali possano essere gli esiti del rinovellare una discesa dei cattolici in politica, di un nuovo “patto Gentiloni”, non è dato sapere, per ora, concretamente. Tuttavia, in via teoretica, il discorso può essere affrontato e concertato sulla base di condizioni edificanti e condivise, universalmente riconoscibili dallo Stato italiano e dalla Chiesa cattolica, concernenti idee e strumenti di definizione e gestione del potere. Si potrà ragionare sul concetto di bene comune, sul valore dei valori, sulla necessità di un consapevole sentire nazionale unitario, sulla formazione accorta e fondamentale della classe politica e dei cittadini, contrastando il vigente e diffuso dilettantismo politico; si rifletterà sul servizio dell’autorità politica all’interesse generale, sul riassetto ontologico della struttura-partito, sulla collaborazione fra Chiesa e comunità politica in un identico, comune pensare «la centralità e l’intangibile dignità della persona umana in ogni ambito e manifestazione della socialità».19 Il reale problema che dev’essere affrontato non riguarda formule, competizioni valoriali o revisione dei sistemi elettorali e non si tratta nemmeno e soltanto di ridiscutere una questione etica o il rapporto annoso fra Stato e Chiesa. In gioco c’è l’educazione di un popolo che oggi appare in crisi e disorientato, come da più parti è stato ammonito. La paideia dell’Italia e degli italiani è la vera questione. Se si prescinde da questo ogni altro impianto di dibattito rischierà costantemente di crollare su se stesso, perché edificato su fondamenta inconsistenti o inesistenti.


Conclusione

Che cos’è la politica? La figura del politico di professione ritratta da Max Weber può costituire un valido modello pedagogico funzionale alla creazione di una politica professionale e di una professionalità in politica? Quanto si deve ancora conquistare in termini di coscienza nazionale e formazione cosciente d’essa? Come reintrodurre sul tavolo del dibattito la questione morale e le sue implicazioni politiche? Quale etica per la politica? Dovrebbe esistere in ogni uomo quella legge morale paolina o kantiana che regola l’agire pratico dell’individuo e che s’impone in esso come imperativo categorico, una morale che implica intenzionale partecipazione interiore all’azione, istituendo l’ideale comunità del regno dei fini? La risposta può accettare le valevoli implicazioni della filosofia di Kant in termini di dignità della persona, la quale, protagonista dignitaria della societas humana, detiene il primato dell’essere un fine e mai un mezzo, incontrando le esigenze della laica società civile, in unione agli intenti etici della Chiesa? Che ruolo può rivestire il cattolico in politica oggi, in cui la lettura dei segni di questi tempi induce a distogliere lo sguardo da una visione di crisi e disfacimento?
La politica, arte del buon governo, non è solo espressione di una volontà di dominio, essa pertiene alla sfera della ragione, la ratio, una ragione naturale che appartiene ad ogni uomo e, se da una parte la fede, i cattolici possono allumare di valori etici particolari, cristiani la politica, tuttavia il campo politico non può essere traslato dalla Ragione alla Fede perché i due ambiti, per natura, sono e devono rimanere autonomi, separati, “indipendenti e sovrani”, come recita l’art. 7 della Costituzione Italiana, seppur in un reciproco riconoscimento.20 Il vettore di convergenza fra etica e politica può forse incontrarsi, in una sorta di summa teorica, nella persona, nella dimensione umana morale quale culmine dell’Ideale che si cala nel Reale, dell’Assoluto che si umanizza in suprema ricomprensione del theorein e del prassein, nel senso etico-politico della responsabilità. La nozione di Persona rappresenta nell’uomo la capacità di intuire la propria identità rivolgendo lo sguardo ad alium, nello specchio dell’altro, in riflessione-relazione con esso. La persona è sempre syn, cum, anello di congiunzione con l’altro, nei cui confronti è sempre responsabile e dunque, costantemente, in qualche misura, libera nell’essere limitata da tale rapporto d’affratellamento alteritario. Esiste poi un altro tratto comune che lega la politica e la religione, la religione cristiana in particolare: la diakonia, lo spirito di servizio, un servizio al servizio del Bene comune. Quest’ultimo visto come la fusione sinergica di teoria e prassi, dover essere ed essere, etica e politica, unità nella differenza.21 Se infatti si considera la politica nella sua veste originaria, greca, essa è l’arte di creare l’armonia all’interno della polis, riunificando le istanze più di-verse, funzionando quindi come spazio di mediazione, in vista del fine più alto cui la civitas possa aspirare, l’homonoia, la concordia; in questo senso la religione cristiana appare quanto di idealmente più prossimo alla politica, intesa come luogo d’ascolto e decisione nella pluralità, proprio per l’innata dimensione di Alterità, di dialogo, accoglienza e apertura all’Altro, che il Cristianesimo connatura a sé, aspirando alla trascendenza, all’umanamente impossibile. Così anche la politica, in ultima analisi, scriveva Weber, anela, in qualche misura, a una sorta di “trascendenza”, in quanto «consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. È certo del tutto esatto, e confermato da ogni esperienza storica, che non si realizzerebbe ciò che è possibile se nel mondo non si aspirasse sempre all’impossibile».

1
Lo storico greco Plutarco, citando il poeta Pindaro, definì il politico come l’artista per eccellenza.

2
I passi citati in questa sezione sono tratti dall’opera di M. Weber, La politica come professione, Mondadori, Milano 2009

3
Aristotele, Etica Eudemia I 5, 1216a 23-28. Secondo il pensiero aristotelico la filosofia deve occuparsi della politica, in quanto essa è la ricerca del bene e del vivere bene - ciò che noi oggi definiamo “bene comune” - nella dimensione della città e dello Stato. Il vero politico compie per il bene comune kalài pràxeis, azioni belle non per sé, ma nell’interesse generale, a differenza del “falso politico” che agisce solo in vista del mero interesse personale.

4
Il termine greco pròblema significa “ciò che è gettato davanti come ostacolo”.

5
Platone era convinto che tutti i regimi politici della propria epoca fossero costruiti sulla base della sola doxa (opinione), e che non venissero governati da professionisti, intesi come professionisti della aletheia (verità) in politica. Amanti, scienziati, professionisti della verità per eccellenza erano i filosofi, coloro che avevano dedicato l’intera loro esistenza alla ricerca della aletheia. Una ricerca difficoltosa e non priva di ostacoli faticosi, tanto da far ritrarre spesso a Platone il filosofo come philoponos (amante della fatica). Nel famoso mito della caverna, che simboleggia l’uscita dall’ignoranza, dallo stato di minorità dell’uomo verso la conoscenza del Vero, la sortita dalla tenebre grottesche è caratterizzata da fatica, la quale impone agli uomini l’abbandono di immagini illusorie di bene per divenire seguaci di ciò che è veramente Bene per l’umanità.


6
Il riferimento è legato al famoso motto che ispirò le Crociate, Deus vult, in nome del quale la riconquista della Terra Santa era agita non per iniziativa o volontà propria, razionale, ma in nome di un principio irrazionale esterno all’uomo, il Dio che vuole.

7
Cfr. Pontificio Consiglio della Giustizia e della pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 408 «Nel sistema democratico, l’autorità politica è responsabile di fronte al popolo. Gli organismi rappresentativi devono essere sottoposti ad un effettivo controllo da parte del corpo sociale. Questo controllo è possibile innanzi tutto tramite libere elezioni, che permettono la scelta nonché la sostituzione dei rappresentanti. L’obbligo, da parte degli eletti, di rendere conto del loro operato, garantito dal rispetto delle scadenze elettorali, è elemento costitutivo della rappresentanza democratica».

8
Cfr. Interventi di M. Cacciari sul tema della politica come professione nell’opera di Max Weber, in www.formazionepolitica.org

9
Costituzione Italiana, art. 49 «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale»

Cfr. Pontificio Consiglio della Giustizia e della pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 413 «I partiti politici hanno il compito di favorire una partecipazione diffusa e l’accesso di tutti a pubbliche responsabilità. I partiti sono chiamati ad interpretare le aspirazioni della società civile orientandole al bene comune, offrendo ai cittadini la possibilità effettiva di concorrere alla formazione delle scelte politiche. I partiti devono essere democratici al loro interno, capaci di sintesi politica e di progettualità».

A. Manzoni, Adelchi. Coro dell’atto III, v. 66

P. Gobetti, Ai lettori, in La Rivoluzione Liberale. Rivista storica settimanale di politica, n. 1, 12 febbraio 1922, pp. 1-2

A. Tornielli, La fragile concordia. Stato e cattolici in centocinquant’anni di storia italiana, BUR, Milano 2011, p. 3

F. Chabod, L’idea di nazione, Laterza, Roma-Bari, p. 33

Cfr. L. Diotallevi, L’ultima chance. Per una generazione nuova di cattolici in politica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, pp. 70-72

Cfr. Pontificio Consiglio della Giustizia e della pace, Compendio…, cit., n. 386

Cfr. Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, Assemblea plenaria, Zagabria, 3 ottobre 2010

A. (card.) Bagnasco, Intervento di apertura al Forum del mondo del lavoro (Todi, 17 settembre 2011), p. 1

Cfr. Pontificio Consiglio della Giustizia e della pace, Compendio…, cit., nn. 106-107

Ibid., n. 571 «Quando il Magistero della Chiesa interviene su questioni inerenti alla vita sociale e politica, non viene meno alle esigenze di una corretta interpretazione della laicità, perché “non vuole esercitare un potere politico né eliminare la libertà d’opinione dei cattolici su questioni contingenti. Esso intende invece – come è suo proprio compito – istruire e illuminare la coscienza dei fedeli, soprattutto di quanti si dedicano all’impegno nella vita politica, perché il loro agire sia sempre al servizio della promozione integrale della persona e del bene comune».

Cfr. J. Navarro-Valls, La dimensione etica della politica, in Civitas. Rivista quadrimestrale di ricerca storica e cultura politica, anno VIII- Nuova Serie – n. 2-3/2011, p. 147 e A. (card.) Scola, Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Marsilio, Venezia 2007, pp. 41-42

giovedì 16 agosto 2012

RIVISTA CIVITAS 1/2012 online


E' online sul sito http://www.sturzo.it/civitas/


 il nuovo numero 1/2012 della Rivista CIVITAS

All'interno, fra i contributi editoriali, si segnala

FORMA MENTIS POLITICA: LA QUESTIONE DELLA FORMAZIONE ALL'ARTE DEL GOVERNO
(di Laura Balestra)


CATTOLICI E IMPEGNO POLITICO
LA RICERCA DELLA STRADA POSSIBILE
Roberto Mazzotta • Agostino Giovagnoli • Marco Follini • Natale Forlani • Andrea Olivero • Raffaele Bonanni • Stefano Zamagni • Gerardo Bianco • Amos Ciabattoni • Franco Riva • Giuseppe Bianchi • Giuseppe Sangiorgi • Mauro Magatti • Laura Balestra • Agostino Giovagnoli • Giovanni Tassani