giovedì 12 dicembre 2013

PRESENTAZIONE LIBRO - "Il Pranzo di Pasqua" di Fiammetta Ferzi



 
 
19 dicembre 2013, ore 17.30 presso Sala di Venere (C.so Mazzini, 251)
 
Introduce: Prof.ssa Franca Maroni
 
 
Sarà presente l'autrice, Fiammetta Ferzi
 
 
 
 
 
 
 
 
 

mercoledì 27 novembre 2013

PRESENTAZIONE ROMANZO "È già mattina" di Alberto Samonà





 29 novembre 2013 ore 17.30, Sala di Venere (C.so Mazzini, 251)
 
Introduce: Dott.ssa Giuliana Poli
 
 
Sarà presente l'autore, Alberto Samonà


 

giovedì 7 novembre 2013

PRESENTAZIONE ROMANZO "Belfrago e Sameli" di Virio G. Stipa

 
 
 

Sabato 23 novembre 2013 ore 17.30, Sala di Venere (C.so Mazzini, 251)

Introduzione a cura di Prof.ssa Laura Balestra

 
 

Sarà presente l'autore,  Avv. Virio Guido Stipa 

 
 
 

lunedì 14 ottobre 2013

EUROPA-MARCHE-ASCOLI 2020

  
 
 
  
 
Il CONVEGNO ASCOLI 2020, si è sviluppato a latere del PROGETTO MARCHE 2020, recentemente presentato con successo alla Mole Vanvitelliana di Ancona e mirato espressamente ad attuare sul territorio regionale le direttive proposte dall’UE, attraverso quella strategia decennale anti-crisi chiamata EUROPA 2020.
EUROPA 2020 è un piano strategico di ripresa, rivolto a ciascuno dei Paesi Membri dell’UNIONE, suddiviso in vari obiettivi (occupazione, ricerca/sviluppo e innovazione, cambiamenti climatici ed energia, istruzione, lotta a povertà ed emarginazione), che è stato definito dal Presidente Barroso come UN PROGRAMMA PER IL DOPO-CRISI, le cui priorità specifiche hanno egregiamente illustrato, nel pomeriggio del 18 ottobre 2013, presso il Centro congressi della Camera di Commercio di Ascoli Piceno, dinanzi ad una platea eccezionalmente gremita e attenta di 300 persone circa, i relatori appositamente intervenuti per l'occasione dalla REGIONE MARCHE: il Presidente del Consiglio Regionale, SOLAZZI, l'assessore regionale alle Politiche comunitarie, GIORGI, il capogabinetto del Presidente della Regione Marche, BECCHETTI, in vece del Governatore SPACCA, rammaricato per non essere potuto, pur volendolo fortemente, intervenire personalmente ad Ascoli, in quanto impegnato per affari istituzionali a Mosca.

Grandi sfide lanciate nella serata, nuove propositive idee per il rilancio del territorio piceno, devastato per vari motivi e abbandonato a se stesso soprattutto in ambito occupazionale. 
Degne di nota le osservazioni e le fattive proposte di rilancio e di crescita avanzate dall'organizzatore del Convegno, l'Avv. ALIBERTI, il quale ha spiegato come dinanzi alla crisi fondamentale sia adottare una prospettiva non più statica, chiusa e inerte, bensì dinamica, aperta, interrelata con le istituzioni regionali, nazionali ed europee. Della stessa opinione anche gli altri numerosi relatori: il Professor TEMPERINI dell'UNIPM (Facoltà di Economia), il presidente di BIM Tronto, CONTISCIANI, il direttore provinciale di Confcommercio, FIORI, e il vicepresidente di Confindustria Ascoli con delega all'internazionalizzazione, CIMINI.
Tutti hanno messo in campo proposte e azioni concrete in sfida alla crisi e all'inerzia che ha attanagliato Ascoli, al fine di beneficiare in maniera intelligente dei finanziamenti provenienti dall’Europa per il periodo 2014-2020, cosicché essi possano divenire, attraverso il sapiente supporto della Regione Marche, una reale opportunità di ripresa e di crescita per il nostro territorio.

 
 

RASSEGNA STAMPA

 
Da IL RESTO DEL CARLINO
19 ottobre 2013
 
 
 
 
 

RASSEGNA VIDEO 

Da VERA TV
Canale 79
 

 

domenica 22 settembre 2013

RASSEGNA STAMPA...


ASCOLI PICENO
CITAZIONI ED ELOGI DA GIULIANO AMATO
 PER LA STUDIOSA LAURA BALESTRA



 
 


La giovane studiosa ascolana, Laura Balestra, ricercatrice storica e saggista per la prestigiosa Civitas. Rivista quadrimestrale di ricerca storica e cultura politica, editoriale dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma, e autrice per la stessa nel 2011 dell’articolo “Roma, l’Europa, la Chiesa: alle origini”, è stata citata con elogio per questo suo scritto dal Giudice costituzionale della Repubblica Italiana, già Presidente del Consiglio dei ministri, Giuliano Amato, all'interno del saggio da questi presentato nel corso della XXXII edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli, svoltosi a Rimini nell’agosto 2011, alla presenza di autorità nazionali, internazionali e vaticane. Il saggio di Amato,  intitolato "Gli italiani, un «noi» da molto prima dello Stato unitario", è contenuto nel volume E. Belloni - A. Savorana (a cura di), Una certezza per l'esistenza, BUR Rizzoli, Milano 2011, alle pp. 339-347. Questa, nello specifico, la citazione della dott.ssa Balestra, la quale da ormai quattro anni scrive e pubblica saggi scientifici di storia, filosofia e teologia per riviste accademiche di Roma, associando spesso il suo nome accanto ad autorevoli figure del panorama nazionale e vaticano:

 

"[...] Sono anni che la hybris dell'io ha finito per superare la hybris delle teologie più estreme [...]. In questa situazione è fondamentale rimettere in campo le risorse morali che abbiamo, per ridare forza ad un «noi» che guarda al futuro. In questo senso le risorse che la religione fornisce sono tra le più preziose di cui una società si possa avvalere, proprio per contrastare quell'io assoluto, per favorire il riconoscimento dell'altro come parte essenziale della certezza dell'esistenza [...]. Questa dell'io è una malattia che non riguarda solo l'Italia, ma sta segnando l'Europa ed è la ragione della crescita dei partiti chiusi nazionalisti, tendenzialmente xenofobi, che negano le radici cristiane dell'Europa, al di là del fatto che esse siano scritte o non scritte in un testo. Al contrario cristianità significa [...] universale: e una religione che è universale non può non riconoscere come partecipi della medesima umanità coloro che provengono da altri Paesi e che vivono con noi.

Laura Balestra ha scritto sull'ultimo numero di «Civitas» un bellissimo articolo su questi temi, ricordando che il Dio che si incarnò nell'uomo dell'Occidente veniva dall'Oriente (Gesù era di Nazareth); che la lingua dei popoli europei ha una derivazione latina, ma la numerazione che utilizziamo è araba; e che l'Europa è cresciuta accogliendo l'altro. [...] Abbiamo bisogno di ridare futuro all'Europa, abbiamo bisogno di ridare futuro all'Italia". (pp.345-346)
 
 
 
 
RASSEGNA STAMPA ONLINE
 

http://www.vivereascoli.it/index.php?page=articolo&articolo_id=427094

http://www.viveremarche.it/index.php?page=articolo&articolo_id=427094

http://www.jant.it/index.php/art-attualita/item/6800-la-studiosa-ascolana-laura-balestra-elogiata-da-amato.html

http://www.pressoff.info/2013/09/ascoli-citazioni-ed-elogi-da-giuliano.html

http://www.liquida.it/consiglio-dei-ministri/#_-_ (scorrere fra le notizie relative a "Consiglio dei Ministri")

http://www.ilmascalzone.it/2013/09/citazioni-ed-elogi-da-giuliano-amato-per-lascolana-balestra/





RASSEGNA STAMPA VIDEO
XXXII MEETING PER L'AMICIZIA FRA I POPOLI (Rimini, 21-27 agosto 2011)
 
 
Dal minuto 1:36:00
 
 
 


RASSEGNA STAMPA da "IL RESTO DEL CARLINO"
 
 






 

giovedì 12 settembre 2013

CITAZIONI...

E poi, curiosando sul web, scopri di essere stata citata in un saggio edito dalla BUR-RIZZOLI nel 2011, grazie a "CIVITAS"...

Nello specifico sono stata citata nel volume E. Belloni - A. Savorana (a cura di), Una certezza per l'esistenza, BUR Rizzoli, Milano 2011, all'interno del saggio di Giuliano AMATO, intitolato "Gli italiani, un <noi> da molto prima dello Stato unitario" (pp. 339-347):





"[...] Sono anni che la hybris dell'io ha finito per superare la hybris delle teologie più estreme [...]. In questa situazione è fondamentale rimettere in campo le risorse morali che abbiamo, per ridare forza ad un <noi> che guarda al futuro. In questo senso le risorse che la religione fornisce sono tra le più preziose di cui una società si possa avvalere, proprio per contrastare quell'io assoluto, per favorire il riconoscimento dell'altro come parte essenziale della certezza dell'esistenza [...]. Questa dell'io è una malattia che non riguarda solo l'Italia, ma sta segnando l'Europa ed è la ragione della crescita dei partiti chiusi nazionalisti, tendenzialmente xenofobi, che negano le radici cristiane dell'Europa, al di là del fatto che esse siano scritte o non scritte in un testo. Al contrario cristianità significa [...] universale: e una religione che è universale non può non riconoscere come partecipi della medesima umanità coloro che provengono da altri Paesi e che vivono con noi.
Laura Balestra ha scritto sull'ultimo numero di <Civitas> un bellissimo articolo su questi temi, ricordando che il Dio che si incarnò nell'uomo dell'Occidente veniva dall'Oriente (Gesù era di Nazareth); che la lingua dei popoli europei ha una derivazione latina, ma la numerazione che utilizziamo è araba; e che l'Europa è cresciuta accogliendo l'altro. [...] Abbiamo bisogno di ridare futuro all'Europa, abbiamo bisogno di ridare futuro all'Italia". (pp.345-346)

lunedì 9 settembre 2013

FRAMMENTI DI CULTURA DEL NOVECENTO...



I

 

Cristo e l’Übermensch nell’opera di Friedrich W. Nietzsche


 

di Laura Balestra

 

 

Ogni grande filosofia è l’auto-confessione del suo autore, reca le sue memorie e in essa nulla esiste di impersonale[1]: questa è l’idea di filosofia animata da Nietzsche ed è da qui che bisogna partire per stabilire una via da percorrere entro il caos a-sistematico, rapsodico del suo pensiero[2].

 

 

1. Also sprach Zarathustra

 

«A questo libro si deve augurare la diffusione della Bibbia, tutto il suo prestigio canonico, la sua serie di commenti»[3]. Così il 2 aprile 1883, Heinrich Köselitz, alias Peter Gast, discepolo, amico, correttore di bozze di tutte le opere di Nietzsche, definì Così parlò Zarathustra. Redatta fra il gennaio del 1883 e il gennaio del 1885, Nietzsche stesso tratteggiò all’editore Ernst Schmeitzner la sua opera con queste parole:

 

Oggi ho una buona notizia da darle: ho compiuto un passo decisivo – e tale che, a mio avviso, può essere vantaggioso per Lei. Si tratta di un volumetto (di appena cento pagine), il cui titolo è Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno. Si tratta di una “composizione poetica”, o di un “quinto Vangelo”, oppure è qualcosa per cui non esiste ancora una definizione: è la mia opera di gran lunga più seria e anche più allegra, e accessibile a chiunque[4].

 

Quale senso può rivestire l’asserzione nietzscheana unitamente a quella di Gast? Che cos’ha di particolare quest’opera, a tal punto da auspicarle una futura diffusione, commenti e prestigio degni della Sacra Scrittura? Quale pregio “canonico” vorrebbe attribuirle il suo autore tanto da azzardarne la definizione di “quinto Vangelo” o addirittura di “un quid indefinibile”? Il problema che si pone dinanzi agli occhi di ogni lettore di Nietzsche, studioso o semplice curioso che sia, risiede nella comprensione, di per sé mai pienamente esaustiva, del suo pensiero. Un pensare altalenante, vacillante, incostante, oscillante fra l’asserire e il contraddire, in un moto ondoso inquietante, dilagante in un arcipelago di poche isole ferme: eterno ritorno, Übermensch, volontà di potenza, morte di Dio, amor fati, trasvalutazione dei valori.

In che modo viene delineata la figura dell’Übermensch negli scritti di Nietzsche? È plausibile ravvisare nell’idea di Oltreuomo[5] la figura del Salvatore cristiano? Quanta parte hanno, nella filosofia di Nietzsche, la matrice “ellenica” e la matrice “cristiana” della sua formazione giovanile? L’oggetto della ricerca è complesso e troppo spesso rischia di vedere inficiata la sua reale natura dietro interpretazioni e semplificazioni prive di rispondenze filologiche che tendono a travisare il pensiero del filosofo, chiarendone alcuni aspetti immediatamente evidenti, ma lasciandone in ombra altri. Tre saranno le linee direttrici entro le quali si svilupperà la trattazione: la dimensione meridiana dell’evento-avvento dell’Übermensch, così come esso viene enunciato nell’opera Così parlò Zarathustra; l’idea di tratti paganeggianti rintracciabili nelle descrizioni dell’Übermensch date da Nietzsche in Genealogia della morale, L’Anticristo, Umano troppo umano, nonché nell’opera precedentemente citata; interpretazione dionisiaca dell’annuncio oltreomistico di Zarathustra di contro alle più recenti esegesi “cristiche” dell’Übermensch nietzscheano.

L’idea fondante risiede nel pensiero che vede l’Oltreuomo, nel suo eterno e indefinito oltrepassamento di sé, come immagine interamente pagana, il cui dio è l’antico Dioniso. Il Greco del pensiero tragico e il fiero Romano, che nella causa di Roma ha il senso del suo esistere e del suo essere, questi sono, forse, i paradigmi di colui che tramonta a se stesso per riaffermare eternamente il suo Sì alla terra, a quella terra che i Greci e i Romani non avvelenavano con dietromondi che cercassero un senso-altro a questa esistenza in una venefica tensione verso l’ultraterreno. Nietzsche sembra descrivere l’Übermensch come icona dell’uomo antico greco-romano, dei popoli del Sì alla vita, una vita aristocratica emblema della grecità arcaica e classica. D’altronde come non pensare a un Oltreuomo “aristocratico-signore”. Meditiamo sulla distinzione fatta da Nietzsche tra la morale dei Signori e la morale degli Schiavi: è palese, a livello lessicale, come la separazione dei concetti di “buono” e “cattivo” potesse appartenere, de iure et de facto, solo all’ἄριστος a colui che nel mondo classico era considerato “il migliore”, il “più nobile”, laddove nobiltà di sangue e nobiltà d’animo, inscindibilmente legate nel mondo antico, costituivano il fondamento di ἀρετή, ἀριστεία, καλοκἀγαϑία.

Copiosi riferimenti testuali nietzscheani sembrano condurre verso la delineazione di un Oltreuomo “pagano”, seppur nei suoi tratti non del tutto definiti o in-definiti. Greco quando pensa e onnicointuisce il pensiero tragico e abissale dell’eterno ritorno, Romano quando nel riconquistare il senso della terra, riscopre la profondità della superficie e la sua fierezza, spezzando le catene nichilistiche della vanità e della compassione. Figure fiere, aliene dalla molle compassione decadente cristiana.

Cosa Nietzsche pensasse del Cristianesimo è noto. Sovente affiorano nella sua filosofia, in relazione alla religione cristiana, antinomie e aporie. Karl Jaspers notò come le valutazioni negative di Nietzsche sul Cristianesimo si stagliassero a tal punto in primo piano da fare quasi scomparire quelle positive[6], sostenendo come la sua ostilità alla religione della decadenza nascesse dalla sua propria essenza cristiana, dai suoi “impulsi cristiani”[7]. Cresciuto in un ambiente di fede protestante, dopo la prematura morte del padre e del fratello, la madre e la nonna paterna attesero alla sua educazione religiosa, ispirata al pietismo e alla fiduciosa credenza del cuore in un Dio buono e misericordioso. Successivamente, nelle scuole di Naumburg e Pforta, Nietzsche si accostò a uno studio critico, filologico dei testi sacri, arricchitosi più tardi grazie alle conoscenze fornitegli dall’amico e docente di teologia Franz Overbeck[8]. Gli studi teologici, affiancati e soppiantati in seguito dalle acquisizioni filologiche di Lipsia e Basilea, indussero il giovane a ripensare i fondamenti teoretici del Cristianesimo, alla luce della cultura classica. Il genio ellenico venne affermandosi come violenta esuberanza vitale di contro all’invilirsi moraleggiante di ogni istinto naturale e forte sotto il peso della croce. All’uomo spirituale Nietzsche oppose l’uomo dionisiaco[9]; al malriuscito sofferente e inerme, l’uomo agonico; all’altruismo servile, l’egoismo aristocratico; alla torma dei compassionevoli in Cristo, l’uomo dell’eterno ritorno, discepolo del dio Dioniso[10]. Se è vero che, parlando di Nietzsche, il suo nome evoca nichilismo, ateismo, va sostenuto che la filosofia nietzscheana non è senza dio, non è un umanesimo a-teo, bensì un umanesimo teologicamente pagano: un neo-paganesimo, una resuscitata religione mitica, sul cui trono siede l’antico dio veniente e redentore, Dioniso. Questi è l’unico nume degno di sopravvivere accanto all’Oltreuomo. Dopo la morte del dio falso e bugiardo dei cristiani, una divinità del mito risorge sulle ceneri del dio della storia.

Non si manifesta, forse, arduo il pensiero di una eventuale somiglianza tra una siffatta figura antica, l’Übermensch dionisiaco e l’uomo nuovo, Cristo? L’esegesi filosofica più recente sull’Übermensch è stata avanzata da Massimo Cacciari nell’opera L’Arcipelago. In essa si tende a giustapporre l’icona Oltreuomo e l’icona Cristo sulla base di accostamenti determinativi formalmente e vagamente plausibili, ma non sufficientemente icastici e validi tali da poter generare una qualsivoglia affermazione fondante e decisiva sul pensiero di Nietzsche. Il tratto comune del tramonto e del farsi altro da sé rimane un punto fermo nella esposizione di Cacciari, ma la struttura, l’origine dell’agire tramontante, credo abbia una natura completamente diversa nelle due icone. Cristo, nel suo tramontare a se stesso, nella sua kénosis, non fa altro che abbandonare la propria temporanea dimensione umana per recuperare la mai, di fatto, abbandonata dimensione divina. Il suo dio non è il danzante Dioniso, né il dio giudeo-cristiano che presiede al presunto ordinamento etico del mondo, ma il dio strutturalmente altro da sé, eternamente inquisitore di se stesso, il quale solo nell’eterna domanda che chieda ragione del suo essere può rendersi identico nella non identità, identico nell’alterità: il Deus Trinitas, il quale solo mantenendo il proprio ego sum qui sum questuante, relazionale, può rendersi capace di ospitare in sé l’alterità quale fondamento del suo essere[11]. L’Oltreuomo, così come Nietzsche lo delinea nelle sue opere, vive nell’universo del mito, non assume mai una dimensione che gli sia propria, non è mai uomo né mai effettivamente oltre-uomo, perché se la facies precipua di una siffatta oltre-figura è l’eterno tramonto, l’eterno oltrepassamento di sé, allora esso sarà sempre destinato a esistere al di là di un “se stesso” che di fatto non potrà mai dirsi tale, se non nell’attimo di Gordio, nel supremo atto della decisione, per poi subito oltrepassare anche questo attimo come non costitutivo del suo essere, di un Essere il cui dio altro non è che l’indefinito ed eterno gioco danzante, γελῶντι πρωσώπω nel pensiero possibilitante della creazione, della distruzione e della ri-creazione, incessantemente, eternamente, di nuovo: Dioniso.

L’Oltreuomo non potrebbe mai affermare la propria “egoità”, perché l’asserire determinante ne negherebbe l’esistenza e l’identità stessa ne costituirebbe interruzione e limite della propria Überwindung. Cristo può, al contrario, affermare Ego sum perché il suo farsi altro incede fra due dimensioni: l’umanità e la divinità, alla luce di una dimensione storica. Egli deve tramontare a se stesso solo per riacquistare una delle sue già costitutive identità-alterità in lui compresenti. L’Oltreuomo non avrà mai un’identità, o meglio, il suo oltrepassarsi dovrebbe presupporre un’identità da oltrepassare, ma è l’identità di un attimo, il tempo di un Sì e poi di nuovo il ritorno. Si potrebbe anche pensare che la dimensione stessa del tramonto sia la sua identità. Congetture e pensieri; ad ogni modo io vedo una diversità tra il tramonto oltreomistico e il tramonto cristico. Il Cristo inteso da Cacciari in senso oltreomistico, come colui che si sradica da ogni fissità identitaria per recuperare e rinnovare una propria identità nell’alterità, è il Cristo che si libera da ogni φιλοψυχία, da ogni amor di sé per recuperare una dimensione altra che costituisca il fondamento e l’essere dell’identità stessa di tutta l’umanità. Come la dimensione Oltreuomo è un luogo che abita già dentro l’uomo, così Cristo è colui che non vive al di fuori dell’uomo, ma è presente nell’interiorità di ogni cristiano, facendo in tal modo di ogni cristiano il luogo dell’apertura all’Altro. Il tramontare di Cristo è un aprirsi all’Altro in una palingenesi radicale presente in ogni suo eterno farsi altro da sé. Cristo ha vissuto il suo tramonto due volte, è tramontato kenoticamente quando si è incarnato, abbandonando la sua dimensione divina, pur mantenendola presente nella sua apparente assenza, ed è tramontato all’acquisita dimensione umana per riappropriarsi dell’habitus divino e mantenerlo tale ἐν τοῖς οủρανοῖς.

Se poi, da cristiani, pensiamo che il regno sia in noi e che la nostra anima sia e conservi una scintilla divina, allora potremmo leggere Cristo come eternamente presente in noi, oltre che massimamente lontano da noi e dunque un Cristo che, pur permanendo nella sua trascendenza, abbia conservato, tuttavia, un vestigium di umanità in lui nel suo farsi scintilla in noi. È come se il nostro Θεός trinitario si mantenesse in dialogo con la creatura, pervadendo con la sua φιλία il rapporto tra noi e Lui. L’Oltreuomo, invece, sembrerebbe una figura strutturata su canoni non solo pagani, ma fortemente individualistici, una figura che vive del suo tramonto, come singolo, eternamente e ciclicamente senza mai approdare a ni-ente. Il ϑεός dell’Oltreuomo, Dioniso, non ha nessuna φιλία col tramontante, né questo è una sua creatura; vivono per se stessi, e questo in Nietzsche è chiaramente un retaggio della religio antica. Nel Cristianesimo, Nietzsche avvertiva la mancanza di forza virile, la nostalgia della fierezza antica, degli ideali classici sui quali sembra modellare il suo Übermensch. L’assimilazione di Cristo e dell’Oltreuomo avanzata da Cacciari, per quanto suggestiva, può avere ragion di sussistere solo su base formale e non, per così dire, contenutistica. La forma del loro essere tramontanti è il solo carattere che unisce i due, il solo, forse accanto all’abbandono di ogni fissità. L’ἀγὰπη che pervade il Cristianesimo è assente nell’immagine dell’Übermensch, quest’ultimo non è un uomo, non è un dio, è forse un παράδειγμα antico che Nietzsche-Zarathustra ha voluto insegnare agli uomini per renderli di nuovo capaci di un dio che non li esautori della loro potenza, né della loro terra, ma mostri loro come riappropriarsi della propria natura, quella natura im-mediata che solo l’antichità aveva intuito e conquistato, mitizzandola al di là ed entro i confini della storia. Un παράδειγμα contrastivo della santa menzogna, del dio che atterra e suscita, inventore dell’al di là della vita?[12]
 
[...]

Continua a leggere su

AA.VV., Frammenti di cultura del Novecento. Nietzsche, Vailati, Simmel, Schlick, Arendt, Zubiri, Bateson, Dell'Oro, Warburg, Dàvila, Garin, Melandri, Gilgamesh Edizioni, Mantova 2013

[1] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, 6.
[2] In Ecce homo, Nietzsche definisce la sua filosofia come “una enorme molteplicità, che però è l’opposto del caos”.
[3] C. P. Janz, Friedrich Nietzsche. Biographie (1978-1979); trad. it. di M. Carpitella, Vita di Nietzsche, 3 voll., Roma-Bari, Laterza, 1980-1983, II, p. 173. Cfr. S. Giametta, Nietzsche, il pensiero come dinamite. Saggi introduttivi da La gaia scienza a Ecce homo, Milano, RCS Libri, 2007, p. 61.
[4] F. Nietzsche, Epistolario 1865-1900. 13 febbraio 1883, Rapallo. Lettera all’editore Ernst Schmeitzner.
[5] Nel testo, d’ora in poi, il termine «Übermensch» sarà tradotto con «Oltreuomo» e non «Superuomo», tenendo conto della recente ipotesi interpretativa di G. Vattimo.
[6] K. Jaspers, Nietzsche und das Christentum, (1952); trad. it. di G. Dolei, Nietzsche e il Cristianesimo, Milano, Christian Marinotti Edizioni, 2008, p. 11, p. 42.
[7] Ivi, pp. 41-51, p. 88.
[8] V. Soncini, «Dioniso contro il Crocifisso». Ricostruzione critica della filosofia di F. Nietzsche. Provocazione per la teologia?, Milano, Edizioni Glossa, 2001, p. 44.
[9] U. Regina, L’uomo complementare. Potenza e valore nella filosofia di Nietzsche, Brescia, Morcelliana, 1998, p. 21.
[10] F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, 49: «Un tale spirito divenuto libero sta con gioioso e fidente fatalismo in mezzo al tutto, nella fede che solo ciò che è isolato è riprovevole, e che ogni cosa si redime e si afferma nel tutto – egli non nega più… Ma una fede come questa è la più alta delle fedi possibili: l’ho battezzata col nome di Dioniso».
[11] M. Cacciari, L’Arcipelago, Milano, Adelphi, 2005, p. 154.
[12] F. Nietzsche, La gaia scienza: «Quindi la santa menzogna ha inventato un Dio che punisce e premia […]; inventato un al di là della vita […]; inventato la morale come negazione di ogni decorso naturale […]. La ragione è tolta di mezzo, tutti i motivi di agire sono ridotti alla paura e alla speranza (castigo e premio): si dipende dalla tutela dei preti, da una precisione finalistica che pretende di esprimere una volontà divina».

domenica 26 maggio 2013

CRISTO E L'ÜBERMENSCH nell'OPERA di FRIEDRICH W. NIETZSCHE (23 maggio 2013)



RINGRAZIO di cuore tutti coloro che mi 
hanno omaggiato 
della loro calorosa e vibrante 
presenza

giovedì 23 maggio 2013


presso la Sala di Venere



RASSEGNA STAMPA e VIDEO


Tratto da Il Resto del Carlino (25 Maggio 2013)






Tratto da VERA TV (Canale 79)


giovedì 14 marzo 2013

Rivista CIVITAS nn. 2-3/2012

CIVITAS 2-3/2012

Italia, Europa: prospettive 2013


 


 

copertina-num2-3-2013

 

ITALIA, EUROPA: PROSPETTIVE 2013

CONTRIBUTI

Roberto Mazzotta • Agostino Giovagnoli • Franco Riva • Giuseppe Bianchi • Marco Ricceri • Nino Galloni • Giuseppe Alvaro • Gennaro Acquaviva • Paolo Maria Floris • Laura Balestra • Max Weber • Claudio Vasale • Ugo De Siervo • Francesco Malgeri • Emanuele Mariani


KRISIS

  IL VALORE DI UNA SFIDA ALLE SOGLIE DELLA TERZA REPUBBLICA

(di Laura Balestra)


 

http://www.sturzo.it/civitas/index.php?option=com_content&view=category&id=77&Itemid=117

 

 

 

Krisis:

 

il valore di una sfida alle soglie della Terza Repubblica

 

 

 

Una critica elegia

 

 

L’Italia del 2012 è stata l’Italia della techne e della presunta ratio oeconomica risanatrice, che mal ha svolto i propri conti con il pathos, il sentimento, le passioni, le aspirazioni, le speranze e le illusioni dei nuovi martiri indistinti, straziati alle porte della Terza Repubblica. Il “pareggio di bilancio” forzoso sforza e sferza tuttora corpi dall’anima infranta, in nome d’una auspicata risoluzione però inefficace, che viziosamente sfiorisce e asseta, generando, infeconda, insolute questioni all’orizzonte, per chi ha ancora vigore d’uno sguardo. La nazione, seppur ne esista un cardine spirituale unitario sempre di là da venire, è affamata, sfinita demoralizzata.

 

«Ahi serva Italia[…]»[1]: quante cose da fare! In questo agendae rei tempus, nessuno spirito d’Italia pare così ardito da ergersi a vessillo d’una nuova idea che sia rinascita e fede in un futuro apparentemente non più in vista. Sapere in quale direzione incitare il galoppo, fare, spronare senza avere sentiero dinanzi agli occhi che possa essere seguito, dove ogni rotta è nebbia. L’Italia, oggi, incipiente destriero che turbina su se stesso, chiedendo senso e direzione alla corsa. Senso smarrito, volto contrito, cuore in tempesta, animo in folle mania dolorosa, gocce battenti che cancellano ogni traccia di via.

 

Dove andare, cosa fare? Come spezzare le catene del sopravvivere comune? Ognuno avverte potente il dolore d’un ostello di solitudine e la ragione non ha più ragionevoli pensieri da sottoporre alla mente sconvolta. Tutto è vaghezza. Luci, voci, attese d’una oscurità che si rincorrono furiose in quella foschia di vapori ferrigni che inonda, solerte, l’inquietudine di uomini e donne d’Italia.

 

Dove andare, cosa dover fare? Il da farsi e il darsi da fare lungimirante di un’Italia fiaccata dalla crisi mondiale avrebbe avuto un solo nome, nel passato glorioso, da opporre all’angoscia: agenda, termine del cui valore attivo solo gli antichi conoscevano il senso. Agire per non essere agiti. Agenda: “cose da fare”, ciò che inesorabilmente, inevitabilmente, necessariamente deve essere fatto, ma in quale modo e a che scopo? Celebrare una nova aetas, una novitas rinascente contrastiva d’un buio periodo da rischiarare, laddove tutto appare critico.

 

 “Crisi” è la parola-simbolo divenuta stendardo dello stato presente di eventi, che hanno attanagliato nella morsa i nostri mondi, da un capo all’altro di quelle terre che si distinguono e s’affratellano per innumerevoli ragioni, sebbene sovente irragionevolmente sottaciute. Eppure quest’emblema che, pronunciato, sembra, assoluto, sciogliere in una ormai accettata realtà soccombente frustrazioni purtroppo incombenti, ha una radice ben più robusta delle nostre fiacche paure. I Greci definivano krisis una scelta, dettata da decisiva capacità di giudizio e discernimento. Krisin poieisthai[2] era per l’Ellade semplicemente l’atto di compiere una valutazione e non aveva nulla di per sé angosciante, se non le conseguenze derivanti dal distinguere e decidere una via piuttosto che un’altra, una volta postisi in direzione d’essa. Cos’ha condotto oggi al cambiar mente, considerando krisis, non come istante del progresso, attimo della decisione, bensì efferato artiglio negativo?

 

Tutto dipende dalla prospettiva con cui si scruta il Reale e, forse, si necessiterebbe di un genio, un ingenium, capace di vedere l’inconcesso. 

 

 

 

 

«A crisis can be a real blessing to any person, to any nation[…]»[3]

 

 

The world as I see it è il titolo di un saggio, «un’antologia di scritti sull’uomo» di Albert Einstein. Ecco, forse, l’uomo di genio che dal passato prossimo della cultura europea e mondiale sovviene a riflettere un lume razionale e passionale sulla tenebra del tecnicismo apatico.

 

 

Non pretendiamo che le cose cambino, se continuiamo a fare sempre le stesse cose. Una crisi può essere la migliore benedizione per ogni persona, per ogni nazione, per tutto, perché la crisi porta progresso. La creatività nasce dall’angoscia, proprio come il giorno nasce dall’oscura notte. È dalla crisi che nasce l’inventiva, così come le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato. Chi attribuisce alla crisi i propri insuccessi e disagi, inibisce il proprio talento e ha più rispetto dei problemi che delle soluzioni. La vera crisi è la crisi dell’incompetenza. La convenienza delle persone e dei Paesi è di trovare soluzioni e vie d’uscita. Senza crisi non ci sono sfide e senza sfida la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non ci sono meriti. È dalla crisi che affiora il meglio di ciascuno. Senza crisi ogni vento è una tenera carezza. Parlare della crisi significa promuoverla. Non nominarla vuol dire esaltare il conformismo. Invece dobbiamo lavorare duro. Fermiamo, una volta per tutte, l’unica crisi che ci minaccia, cioè la tragedia di non voler lottare per superarla.[4]  

 

 

 

Arduo è il tentativo d’attribuire un significato ai fenomeni in atto. Nell’indistinta, fosca realtà odierna l’Italia ha vissuto e continua a vivere divelta, ghermita, afferrata fra due scelte costantemente in atto, che sorgevano per gli antichi, al tempo del gladio e dell’arena, a ricordar come l’inerzia fosse incapacità a sopravvivere volontariamente alla sfida. To act or to be acted upon: questa la legge dell’anfiteatro, bivio critico fra l’agire e l’essere agiti da qualcuno o qualcosa d’altro che non sia il proprium. Manca la lucida analisi del cambiamento epocale che il mondo sta vivendo o a cui, meglio, pur tentando, non sta sopravvivendo, perché «il fare sempre le stesse cose»  – avrebbe detto Einstein –  o forzare subitaneo il mutamento di rotta, altro non produce se non dirottamento, una dantesca «nave sanza nocchiere in gran tempesta».[5]

 

La techne, per sua natura predisposta al metodo, all’espediente che è, a volte, tranello e inganno, s’è, a mio parere, ingannata della maniera smaniosa e d’eccessiva potenza capace che, nei fatti, l’ha sopraffatta, macchinando e decidendo cosa tecnicamente poteva e doveva, forse, essere fatto, ma senza preparazione abile a percepirne le macchinose conseguenze. L’Italia in crisi ha affidato se stessa al téchnema degli antichi chrestòi[6], le persone valide, realmente capaci e dabbene cui delegare incarichi di responsabilità. Può, tuttavia, questa essere la soluzione? La physis della polis e dei politikoi quale logos opporrà, in futuro, alla techne? La classe politica italiana è chiamata ora ad una metanoia senza precedenti, un ripensamento, una conversione, una rivoluzione morale e spirituale, che sia finalmente comprensione e comunione di intenti e di azioni, il cui fine ultimo si rivolga a quell’araba fenice che è il Bene comune, primaria «ragion d’essere dell’autorità politica».[7] Se il governo dei technikoi ha contrastato la crisi, valutando esclusivamente la res oeconomica, successivamente un governo adveniens di politikoi competenti ed eticamente ispirati da una renovatio  senza precedenti dovrà agire premurandosi di tutelare le res humanae e la dignitas, più in generale la res politica, affinché si stabilisca nel Paese un “Nuovo Rinascimento” e non un eterno affastellante ritorno dell’identico, tutt’intento a mercanteggiar tra piazze e strade della finanza. L’intellettuale Piero Gobetti, assorto e attento a de-finire il finis, che è scopo e limite, tra politica e scienze (technai) strumentali ad essa ancillari, così s’espresse nel saggio La Rivoluzione Liberale:

 

 

 

Se la parola decisiva spetta, senza appello, al politico l’indagine economica non ci darà lo specifico infallibile, ma appena dei punti di riferimento. Tutto il valore della tecnica si deve esaurire nel suo carattere di strumento e di coefficiente. L’uomo di Stato starà attento al consiglio dell’economista, ma lo subordinerà agli altri fattori storici.[8] […] L’economista rimane fedele al suo limite scientifico, suggerisce criteri di buona amministrazione, espone i risultati della sua esperienza isolata e ristretta secondo ipotesi e astrazioni quasi matematiche, o secondo misure semplicemente descrittive. L’economista constata l’esistenza di un problema finanziario, burocratico, monetario, offre l’anatomia dei processi di produzione della ricchezza in un determinato momento storico: ma la sua osservazione resta sul terreno delle premesse e dei sintomi.[9]

 

 

 

La politica è un’«attività autonomamente direttiva»[10], così ne avvertì la natura precipua Max Weber, una vis activa, vòlta a dirigere e a influire sulla direzione dello Stato; le scienze ancillae rei politicae recano un potenziale consultivo, mirabile, ma non direttivo: la nostra Italia, ora, ne è lo specchio che riflette e impone una riflessione. Tuttavia, la voce della nazione sembra ancora tacere e nessuno, di certo, si considera “benedetto” da krisis o dal tentativo d’economia risanata! Gli italiani hanno mente e cuore per reagire? Esiste un reale potere della nazione, una forma mentis politica protesa alla felicità e al Bene comune? Dall’armonia disfatta chi ricomporrà l’homonoia? «Causa quae sit, videtis: nunc, quid agendum sit, considerate»[11], tuonerebbe un antico amante della respublica, quale fu Cicerone. Ma si può con certezza sostenere che tutti abbiano percepito la causa che ha condotto alla crisi, a Gordio, all’attimo della decisione e che ora, tutti siano in grado di considerare, ciascuno per se stesso e per la patria, quid agendum sit? Che cosa si deve fare, quando la tecnica sottrae potere al potere e la politica snatura il proprio impegno civile, perché fluttuante sull’onda di un disimpegno politico imperante? S’è finalmente desta l’Italia della crisi? Si pugna, si vince per superare e affrontare la scelta? Chi cavalca quest’ora e raccoglie la sfida? Posta la meta come limite valicabile, quali strumenti si dispongono atti allo scopo? Tra le Alpi e il mare non s’ode ancora alcun squillo di tromba, eppure in catene il sostrato è fremente nell’incertezza dominante!

 

 

 

 

Un miraggio politico: la Nazione

 

 

Ogni storico indaga e perlustra i meandri di memorie trascorse al fin di gettar luce sul presente. «Nell’ampio mare nel quale ci avventuriamo», scrisse un tempo Jacob Burckhardt, «le vie e le direzioni possibili sono molte» e «[…] in una storia della civiltà, la difficoltà più grave sta appunto nel dover rompere la continuità del processo storico, scomponendolo in parti che spesso sembrano arbitrarie, per giungere a darne comunque un’immagine».[12] Qual è l’eidos che l’Italia riflette negli specula altrui e nel proprio? Come riverbero d’un Dioniso fanciullo, assetato distruttore d’ogni alto effetto, il Paese deplora un riflesso consunto, umbratile sembianza dell’antica Signora dalla munifica cultura, corte degli spiriti magni dell’ingegno. Se solo s’accorgessero gl’Italiani d’essere culturalmente la nazione più avanzata del mondo, allora il riafferrar le memorie di Roma e i fasti dell’antico precorrerebbero i tempi morti di una deminutio affliggente, incapace di scuotere la natio a farsi guida e meta delle sorti sue e d’Europa! Uscisse dallo “stato di minorità” che ella, Italia, deve, sola, imputar a se stessa, perché incapace di valersi ora del lume vero d’una ratio che è traditio, memoria di quei popoli che, da un capo all’altro dell’humanitas, grande fecero la Storia d’Italia: non volgo disperso, ma unita nazione! «Solo se saremo uniti saremo forti. Solo se saremo forti saremo liberi», tuonava De Gasperi. Il grido dell’Italia unitaria, cui tesero gli sforzi di tutti o di molti nel Risorgimento e, ancor prima nei secoli entusiasti della letteratura dantesca e petrarchesca, e successivamente nelle voci accorate dei moderni “patres” d’Italia e d’Europa[13], non può né deve rimanere un talento raro di spiriti magni, un entusiasmo di maestri d’arme letteraria e genio politico, bensì costituirsi afflato comune e spirituale, fede d’unità e speranza, che colmi il vuoto abisso e baratro della perversa mania di chi vi s’abbandona, inerte, inerme, inane.

 

«[…] L’idea moderna di nazione […] è coscienza piena di se stessa, della propria ‘individualità’, costituita dal passato e dal presente, dalle tradizioni storiche come dalla volontà attuale di essere nazione».[14] Il Medioevo, le riflessioni di Dante, l’anelito del Romanticismo, l’esortazione di Manzoni e del Risorgimento bramarono una Italia, «una gente, una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor»[15], eppure il desiderio ha per secoli indugiato nella contemplazione meramente teoretica d’un ideale, senza dar atto ad alcuna espressione visibile, concreta d’esso. Dov’è la nazione? Da più voci s’invoca responso. Dove mai la libertà sì cara alberga nel fato d’un popolo che possa proclamarsi tale, unitario, identitario? Quale identitas, quale idea ha e dà di se stessa l’Italia all’Europa, al mondo delle nazioni e degli Stati? La nozione formale, che è specie e criterio del proprio carattere individuale, ha aspetto fugace e ingannevole in Italia, nazione solo di nome, purtroppo non consegue da tempo il fatto, l’agito, l’edificazione spirituale, manto manifesto sul Paese reale. L’Italia è vittima della medesima crisi d’identità e cultura cui soccombe incosciente l’Europa, grandioso fragile organismo disarticolato, colosso di res oeconomicae senz’humanitas, fiacca nel senso morale, lacera nelle categorie che la resero immortale patria di Pericle e del grand’Alessandro, di Cesare e d’Augusto, del Rinascimento e del secolo di Louis XIV, dell’inno accorato della Bastiglia e della volontà di nazione risorgimentale. Se Roma, nel suo vasto dominar antico propugnava il divide et impera, quale dogma politico che efficiente rendeva l’amministrar nationes diversae, senza cura però dell’anima spirituale e fraterna delle genti, il mondo dopo Roma conobbe la fides e l’agape, la novitas del Cristianesimo affratellante, che edificò l’Europa moderna su colonne invisibili e trascendenti, innegabilmente greco-romane, irrefutabilmente cristiane. Tali fundamenta  riconquistano per anamnesi il senso proprio d’Europa, che «è senso di solidarietà morale e di connessione spirituale».[16] L’Europa ha bisogno di definire se stessa con chiarezza, così come le nazioni che s’armonizzano in essa e, solo afferrando il carattere individuale di sé e dell’Altro, si potrà finalmente nomare l’identità europea posita e ascosa nella screziata varietas di dissonanze armoniche, che sono pròblema e agòn e, al contempo, logos unitario.[17]

 

 

 

 

Politica e Visione

 

 

«Il soggetto dell’autorità politica è il popolo»[18], ma laddove quest’ultimo perda di vista l’orizzonte valoriale della propria dignità umana e autorità sovrana, quale soteria si porrebbe come salutare via per risanar le coscienze? Quale facies politica si prospetterà in Italia dal 2013? In questo frangente, al vero uomo politico s’impone il compito e il dovere di avere, pensare, agire secondo una visione di natura politica. Ogni singolo aspetto della società va ora meditato, visionato, immaginato, auspicato, prospettato con acribia meticolosa, perché si agisca poi, in via successiva, con criterio. «Sempre la pratica dev’essere edificata sopra la bona teorica», sosteneva quel genio mirabile di Leonardo e mai affermazione fu più vera e calzante nella politica che s’intende far nuova in questo momento: politica pratica e teorica, praxis e theoria. Bisogna farsi visionari laddove il quadro d’insieme sfumi indistinguibile i propri profili: corre l’obbligo morale di rinascere teorici di mai create realtà possibili. Theorein in greco vuol dire vedere e il teorico è colui che, teoreticamente, informa il proprio agire pratico sulla base del senso dato ai fenomeni, còlto per immagini, nella propria mente. Ogni teoria, dalla letteratura alla scienza, passando per tutti i campi trasversali del sapere che richiedano quale premessa ad una buona azione una altrettanto buona visione, sovrastruttura idealmente le dinamiche propriamente attive. Considerare, riflettere, giudicare, cogliere e comprendere il senso nascosto di ciò che è o dovrebbe essere, nel tentativo di imprimere forma alla sostanza, azione al pensiero: cos’è e che funzione può avere, adesso, una teoria in politica? Intuire o definire la veste concettuale d’una contemplazione, che è parimenti partecipazione e meditazione dirimente la critica impasse italiana, equivale a sistematizzare un’idea per cui «il caos della vita politica viene plasmato in base alla visione ordinatrice del Bene».[19] Armonia, pace, buon governo, equilibrio, giustizia, per non citare qui i greci eunomia, homonoia, isonomia o i latini pax, ordo, concordia, etc, i quali cos’altro connotano, dal passato al presente, se non un’intima esigenza ordinatrice dell’intelletto pensante? È necessario, in questa fase di supplenza amministrativa in Italia, che i politici si facciano filosofi, cacciatori amanti di Verità, che ponderino e tengano la rotta tracciata sulle mappe del buon governo.

 

La visione del filosofo politico è improntata al kosmos: adaequatio rei ad intellectum. Adeguare la cosa all’idea di essa, l’agire al pensare, secondo una disposizione regolata da armoniose leggi teoriche, viste in nessun altro luogo che nella mente dell’avente visione.

 

 Cosa vuol dire, dunque, avere visione politica? Vuol dire avere un’immagine della realtà, della realtà politica nello specifico e, in base a tale eidos, progettare un sistema migliorativo di ciò che è, tentando di approssimarlo a come esso dovrebbe essere, in via realizzativa. Visione è una via prospettica dei fenomeni politici, ma non va confusa o semplicemente ridotta al puro atto percettivo della vista, fondamentale infatti sarà il connubio associativo di percezione fisica e immaginazione intellettuale. Immaginare un modello e ad esso conformare una realtà, declinata nelle sue istanze pratiche, colmare la distanza naturale che si interpone fra teoria e prassi, sanare il divario fra il possibile immaginato e il reale da iconizzare è impresa ostica e faticosa. Il vero uomo politico possiede, quasi connaturata al suo essere, un’ontologica dimensione progettuale e, sebbene egli non sia un teorico, un filosofo, tuttavia, nihil obstat che possa essere chiamato a farsi tale, qualora una necessità imperante lo richieda, al fine di restituire un volto condiviso e credibile alla classe cui appartiene e alla gestione del Paese che gli pertiene.

 

L’“avere una visione” non vuol dire, certo, esseri visionari in senso negativo, immaginare è ben diverso dal fantasticare, c’è una sorta d’amorosa corrispondenza fra Ideale e Reale e, in tal senso, fondamentale, risulterà essere la «dimensione futuristica» della visione, che proietta l’ordine politico in un tempo a venire.[20] Tra i nostalgici del temps perdu e i pionieri del futuro, le teorie riorganizzano la tradizione nell’innovazione e l’innovazione nella tradizione. «Proprio come la storia non ripete mai se stessa, così l’esperienza politica di un’epoca non è mai assolutamente identica a quella di un’altra» e sovente si incontrano «pensatori politici, collocati in due differenti momenti storici, che usano gli stessi concetti attribuendo loro significati diversi […]. Il risultato è che ciascuna teoria filosofica importante contiene in sé qualcosa di unico […] così come qualche elemento tradizionale».[21]

 

Ogni tradizione è l’esito di una pratica memoriale incessantemente attiva nel recupero inventariale del passato, teso a meta ultima di trasmissione innovativa nel presente e futuro. Nel 2007 il cardinal Angelo Scola, nell’opera Una nuova laicità, in una bella immagine descrisse ‘il Nuovo’ come inventario dell’antico e dall’antico, scoperta della tradizione nell’innovazione e dell’innovazione nella tradizione: «l’etimo della parola inventario […] (si ricollega ad) invenio, un verbo latino che indica la scoperta di qualcosa di prezioso. Il significato di tale scoperta ha in sé una duplice valenza. Da una parte richiama un fattore di novità – su questo elemento fa leva l’uso della parola invenzione per indicare qualcosa che non c’era prima. […] D’altra parte la scoperta propria dell’invenzione può fare riferimento alla messa in luce di qualcosa di già presente, anche se in qualche modo in forma non esplicita. In questo senso si può dire che l’inventario è un esercizio di memoria che approfondisce la presa di coscienza della propria identità. Quell’identità che non potrà mai essere individuata se con miope presunzione si prescinde dal passato».[22]

 

È lecito nella modernità resuscitare paradigmi o dogmi antichi? Nell’accezione originaria di dogma, ciò che sembrava bene o opportuno agli antichi, potrebbe avere una valenza utile anche per i tempi attuali? Nutrirsi di siffatta azione sarebbe anacronistico e traviante o, come consigliò Machiavelli, vitale e incitante? L’antichità è una visione passata ma non passiva e la mole di esempi cui ispirarsi parrebbe sterminata. Un corpus organico ed eterogeneo di modelli si dispiega dinanzi alla modernità e, nella tipica prospettiva imitativa rinascimentale, il Machiavelli statista e letterato non poté fare a meno di interrogare l’Antico per vedere se ancora, ai suoi tempi, questo rispondesse e corrispondesse lezioni validamente declinabili e attive.

 

Il metodo è fondere la teoria nella prassi, unendo l’«esperienza delle cose moderne» e la «lezione delle antique». Nella mente del sottile diplomatico fiorentino, la politica pratica non è l’applicazione della teoria, bensì è quest’ultima a scaturire dalla prassi come speculum di essa e non viceversa, altrimenti tutti gli Stati ideali progettati dalle immaginazioni degli uomini sarebbero stati realizzati «in vero». Si vedano anche i progetti utopici di La città del Sole di Tommaso Campanella e Utopia di Thomas More. L’immaginazione della cosa è discorde dalla «verità effettuale» di essa. Machiavelli non è un “visionario”, la sua idea è in realtà una pratica e la sua politica è tutta improntata a un concreto e fattivo realismo. Eppure un principio immaginifico, una visione ideale, emerge tra le pagine private del politico-scrittore, quando libero dall’«ingaglioffarsi» quotidiano si soffermava a meditar l’humanitas delle «antique corti degli antiqui huomini».[23]

 

Cos’è questo se non un vigile rapimento estatico? Un dialogo familiaris fra il nuovo e l’antico, in cui la ragione in-tuisce, ficca lo sguardo nella visione dell’antica corte e ne attinge mirabilia. Non c’è affanno o noia, la dimensione è sospesa nel tempo e nello spazio, non v’è luogo (ou-topos), non v’è più tempo, eppure mai il Machiavelli politico cede il passo all’u-topia, mai vuole abbandonarsi ad una immagine irriproducibile nell’esperienza e, nella corrispondenza di sensi fra sé e gli antichi, egli esperisce la lezione dei classici e la traduce in un’opera, il cui carattere fondamentale è l’utilità pratica: il Principe, essere bifronte, volpe e leone, mezzo uomo e mezzo animale, centauro, paragone mitico non mitizzato, incatenato alle leggi logiche della prassi. La politica machiavellica è scienza pratica che dirige il corso delle azioni.

 

La visione propria dell’arte del governo, tuttavia, permane pur sempre come un cardine immaginativo-progettuale che, a partire dallo Stato ideale teorizzato da Platone, si protrae nel corso dei secoli come iter di sintesi fra pensiero e azione e dimensione attiva e ordinatrice della politica stessa. Visione è riflessione per immagini. «Dove si troverà dunque il sentiero della politica? Occorre infatti trovarlo e, dopo averlo separato dagli altri, imprimergli il sigillo di una sola idea e contrassegnare le altre diramazioni con un’unica altra forma»[24], scrisse Platone. Un sentiero e una visione, è sufficiente alla politike techne questo binomio di una via che diviene meth-odos ed eidos tendente a meta ultima, per agire e reagire alla disfatta contemporanea?

 

 Molte menti e molti uomini ebbero visioni dal passato al presente, immaginarono vie oniriche e reali per ascendere e trascendere l’entelechia propria dell’umana essenza. Ci fu un uomo, una volta, che prigioniero in un carcere ebbe una visione, «I have a dream»: il suo nome era Martin Luther King. La sua non era una visione illusoria, aleatoria, utopica, svincolata dalla realtà, e come l’uomo della caverna platonica, filosofo prigioniero che s’allontana e libera dalle catene della doxa (opinione) per dirigersi verso una luce, verso un sogno che è poi realtà e verità, l’aletheia greca, così King seguì uno stesso sentiero, un odos precorrente verso un’idea-visione: a dream. Se ben si ricorda, il “philosophos” di Platone, che è già ontologicamente politikos, una volta uscito dalla caverna e contemplato il Sommo Bene, ebbe quest’impulso poi a rientrare nel luogo oscuro da cui provenne per illuminare gli altri compagni suoi, per un innato spirito di servizio, uno spirito politico di servizio, di diakonia, un servizio al servizio del Bene comune, che è essentia e substantia di ogni agire politico.

 

La filosofia politica e il filosofo politico, da non confondere con l’arte politica né con il politico,  possono avere un ruolo di chiarificazione e di valutazione di ciò che è, approssimandolo a ciò che dovrebbe essere, all’Ideale, ma il compito del teorico non è quello di occuparsi della praxis, della veste pratica dell’agire politico, bensì solo della theoria. La politica è una cosa estremamente seria, è l’ambito della nostra vita umana in cui la responsabilità decisionale ha carattere vitale, vincolante e i filosofi politici hanno un ruolo delicatissimo oggi, perché una visione “visionaria”, che accechi la mente del teorico, può costantemente correre il rischio di indurre all’errore e l’errore teorico, se riverberato sulla prassi, ha un impatto negativo. Basti citare su tutti Aristotele che teorizzò la politica come arte esclusivamente maschile e “libera”, relegando donne e schiavi, i non liberi, a una dimensione extra-politica. L’Ideale ha una funzione regolativa, la Visione ha una dinamica cosmica, ordinatrice, ma il suo ambito è consultivo, la pratica è ben altra cosa, ma può trarre dalla visio progetti, ispirazione: a dream, il sogno e la speranza della rinascita etica, culturale, spirituale, sociale d’Italia e d’Europa.

 

 

 

 

La ricerca della felicità

 

 

Tutti desiderano vivere felici in questo momento più che mai, ma «a vedere con chiarezza che cosa renda la vita felice, hanno la vista annebbiata».[25] L’intento tecnico-teorico, fattivamente utopico eppur imposto reale, di porre un freno economico alla crisi che, apparsa primariamente come crisi finanziaria, si è invece rivelata crollo e disfacimento d’una fragile facies nazionale e dunque spirituale, coincide forse con ciò che comunemente viene definito ‘prosperità, felicità’ di un Paese? Il benessere socio-economico è legittimato a farsi categoria spirituale o reggente suppletivo di quell’universale dimensione valoriale che è il Bene comune? Il 18 marzo del 1968, Robert Kennedy, in maniera accorta ed evidente, sostenne come non si potesse allora - né si possa oggi, aggiungerei -  possedere esatta percezione o misura dello spirito di una nazione sulla base degli indici di borsa o del PIL, perché tali indicatori arrecano ad ogni Paese il torto d’arrogarsi una visione d’insieme, presupposta metron d’ogni cosa, scientificamente forse infallibile in tutto ad eccezione di «ciò che rende la vita veramente degna d’essere vissuta»[26]: salute delle famiglie, qualità della loro educazione e gioia, bellezza della conoscenza e della saggezza di un popolo e del suo coraggio. Nel salto temporale e spaziale dagli USA all’Italia, recentemente, si segnala il 46esimo Rapporto annuale del Censis sulla situazione sociale del nostro Paese, il quale ha tratteggiato un quadro greve, un’icona decadente il cui centro emotivo connota un divario insanabile fra «le strategie istituzionali di rigore dei conti pubblici […] e le affannose strategie di sopravvivenza dei vari soggetti sociali». Lo stesso Giuseppe De Rita, presidente del Censis, in un’esortazione, che è in parte ammonizione e in parte sollecitazione, ha chiarito come sia «ora di trovare un modo di governare che si connetta ai processi reali, in una nuova sperimentazione di unità di governo e di popolo».[27]

 

Chi attende, dunque, all’edificazione della felicità d’Italia: l’oeconomia o l’humanitas, la nazione o la nozione tecnica?

 

 La politica è «la scienza architettonica» che ha per scopo il Bene comune: in questi termini la elogiò Aristotele.[28] L’uomo, per natura essere politico, realizza la sua umanità e felicità nella polis, tempio dell’architettura civile e del senso più intimo dell’essere uomini politikoi. Quae cum ita sint, che cos’è la felicità? Uno stato emotivo continuo di benessere? Essa è ed ha un valore assoluto o dipende forse dagli uomini e dalle condizioni del loro vivere associati? Esiste una superdeterminazione statale-comunitaria della felicità, intesa come universale felicità pubblica o si tratta piuttosto di una dimensione d’acquisizione tutta interiore e personale, se non addirittura personalizzata ed individuale per ogni uomo? È lecito parlare e definire la felicità o sarebbe più corretto indagare e considerare le felicità? Esiste una felicità assoluta o relativa? In tempi di sfida e di scelta, di crisi è forse bene interrogar la memoria per rinvenire e scoprire che voce avesse dato l’antica Grecia, sostrato non unico ma unitario d’Europa, al sommo bene per l’uomo.

 

Il filosofo Platone era un pensatore sui generis, a-topico o, meglio a-tipico, strano per certi versi, che però condivideva con i pensatori suoi contemporanei l’idea che solo attraverso una buona forma di governo l’uomo potesse raggiungere la propria felicità. A parafrasare una nota citazione di san Cipriano, potremmo accorarci, poi, al filosofo Aristotele nel suo antico, vincolante intreccio di felicità e Stato: extra “Polis” nulla felicitas! La felicità era, per Aristotele, lo scopo ultimo della vita umana, un’attività agita conformemente alla virtù più alta dell’essere umano, l’intelletto «realtà divina, […] che ha nozione delle cose belle e divine», un’azione risolventesi nell’attività contemplativa, l’energheia theoretike[29], un’energia vitale e valoriale per se stessa. Il filosofo di Stagira ravvisava nella politica l’arte capace di creare le condizioni per la felicità dell’essere umano. Una buona comunità politica entro cui la gestione del potere e i governanti che ad esso attendano abbiano come fine il prendersi cura dei cittadini, trasfondendo in essi valori e ideali, ispirati a giustizia e verità, creando la perfetta comunità e dunque le precondizioni per l’originarsi di una dimensione attiva all’esercizio dell’attività contemplativa, summa della felicità umana, costituirebbe la migliore comunità possibile, governata nel migliore dei modi possibili. In tal senso, la politica rivestiva un ruolo fondamentale per Aristotele, il quale ben sapeva che vivere in una cattiva forma di governo poteva causare povertà e conseguente continua ricerca, spesso vana, dei propri mezzi di sussistenza, non riuscendo a realizzare quella potenzialità unica e tipica dell’essere umano che è fare attività di pensiero, teoresi, speculazione. L’espressione “ricerca della felicità” non è più oggi aspirazione a un senso di benessere assoluto, all’eccezionalità, se vogliamo, che peraltro è diventata norma, bensì aspirazione estrema verso la normalità, che s’è invece tramutata in paradosso e meta ultima cui tendere, spesso invano. La felicità non esiste forse più? Se per Aristotele essa coincideva con la vita teoretica, contemplativa, resa possibile da un lavorio statale incessante, vòlto a stabilire il complesso sereno di norme e atti garanti supremi della normalità vitale e artefici di quell’insieme funzionale di condizioni basali per la “felice” teoresi, oggi, l’assenza di ordine e regolarità nella società e l’impreparazione dello Stato nell’assicurare ai cittadini la garanzia minima di un vivere dignitoso ha, paradossalmente, concorso a minare la certezza umana sul presente, la progettualità verso il futuro e, con esse, l’aspirazione stessa alla felicità. Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie, ma non tutti siamo soldati, come in Ungaretti, eppure lo stato presente di cose c’induce a scendere in piazza o in campo a schierarci come precari combattenti in lotta con una quotidianità non più posta quale certa sicurezza, ma terra di conquista, non data e sempre anelata. Le forze dinamiche impresse all’agire di ognuno sospingono i più come foglie al vento tra uno sciopero e una protesta, grida assordanti nello sciabordare silente d’una società-fiume che tutto inghiotte e trascina, senza istante di riflessione, piuttosto fulminea azione di trasporto e deposito ad altri lidi, desolati. Grida soffocate, estenuate in cerca di risposte sociali e politiche, garanti un tempo di quelle condizioni ab imis per la felicità, su cui ergersi nella forma divina e più compiuta dell’uomo a contemplare l’Assoluto e oggi, apparentemente forse, incapaci di offrire la benché minima garanzia, non tanto per la felicità come la intendevano gli antichi, quanto per i presupposti stessi del vivere associati, che, in regressione, sono diventati essi medesimi, adesso, il sommo bene cui attendere, in senso assoluto.

 

Life, liberty and the pursuit of happiness: nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America vita, libertà e ricerca della felicità si ravvisano quali diritti inalienabili, principi sostanziali dell’uomo, stabiliti per esso perentoriamente. Solo la felicità pare sfuggire al canone del positum per connotarsi come non concessa, ma bramata, aspirazione in tensione. Non si ricerca la vita, non si ricerca la libertà, si ricerca la felicità. Perché? L’inseguimento, la caccia a ciò che definiamo con l’aggettivo “felice” sembra essere nata, connaturata all’essenza stessa dell’essere umano. L’uomo non nasce felice ma insegue e ricerca, lungo tutto l’arco della propria esistenza, una condizione felice, simile, nel suo procedere, a un cacciatore, ad un indagatore, inseguitore che vive in continua attesa di qualcosa sempre di là da venire, se non per brevi istanti, fugaci, attimi irripetibili e passeggeri, felici appunto. Il sentiero è periglioso e impercorribile, per la felicità si cammina come su fil di lama e agli occhi essa è barlume che vacilla, il piede incede verso lei, lieve, su ghiaccio che s’incrina[30], in perenne trazione fra desiderio e nostalgia. A leggere i segni di questi e altri tempi, felicitas si va cercando quale diritto di tutti, dunque è forse un ‘bene comune’?

 

La ‘felicità’ non è essa stessa il ‘Bene comune’ di una nazione, di un popolo, ma ne costituisce tuttavia l’ypothesis, il substratum, il presupposto e, ad esso Bene, rinviano i principi di dignità, unità e uguaglianza e sovente è stato definito dalla Chiesa come «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente».[31]

 

 

 

 

Conclusione

 

 

L’Italia vive ed è vittima d’un nuovo decadentismo. Essa langue come spettro d’un Impero alla fine della decadenza, precaria ombra della propria esistenza. Tutto è bevuto, tutto è mangiato! Niente più da dire!, cantava fiacco Verlaine. [32]  Ma è davvero questa la realtà? È vano ogni impegno, ogni prospettiva di rinascita?  La krisis greca che era prospectum ed auspicium, agiva così parimenti per Einstein, saggio scrutatore della “crisi benedicente”, forza motrice connaturata alla progressio societatis. L’Italia della crisi non deve temere se stessa né quest’ultima, se vorrà dar più importanza alla soluzione che al problema, dovrà altresì affrontare krisis, agire per evitare il rischio d’essere ancora agita. Il metodo tracciato dalla techne ha mostrato una via per spezzare il ciclico ritorno dell’arido identico, privo di visioni lungimiranti, ma le scienze ancillae della politica, se da una parte possono suggerire i criteri del buon governo, dall’altra devono avvertire il limite scientifico - come lo definì Piero Gobetti - della propria abilità e non cedere alla brama fascinosa d’una potestas che è politica e d’una auctoritas che è della nazione, del popolo. «Il valore della tecnica – ammonì Gobetti - si deve esaurire nel suo carattere di strumento», pena l’insana aspirazione alla creazione d’una civitas utopica, che fallirà ogniqualvolta un cogitatum, una theoria astratta, nella velleità d’essere l’esatto matematico che pone esito al problema, dimenticherà il senso della praxis politica per cui essa idea è sorta nella mente, scatenando un divario di strategie, un’impasse insanabile fra Ideale e Reale. Che il potere salvi il potere! In virtù di un principio di legittimità, che la techne restituisca alla politica il trono che le è proprium, posto che però il volto di quest’ultima sia davvero mutato, trasfigurato, innovato nella metanoia ideale del Bene comune. La parola decisiva spetterà ai veri politici, i quali dovranno afferrare l’immutabile, incatenandolo ai dettami reali di ragione, contemplando nella teoria politica la prassi e agendo nella prassi politica la teoria, memori della traditio possente di questo nostro Paese. La politike techne è una scienza architettonica e direttiva, «una sorta di esperienza artistica di tutto l’uomo»[33], in cui le competenze richieste al suo esercizio si definiscono per una funzione di supervisione generale sulla città e i suoi flussi vitali, con la figura del politico a capo, insignito di una sorta di “investitura episcopale”, non connotata religiosamente, bensì etimologicamente come episkopeia, sorveglianza e custodia sull’associato vivere della polis in comunità. Scrisse Gobetti, sfiduciato, con sentore poetico e quasi profetico, che il popolo italiano è stato per secoli «educato al parassitismo», mai sanato da un’atavica «malattia feudale» e qualunque crisi esso si trovi a vivere altro non sarà se non la summa di tutte «le scarse attitudini degli Italiani all’autogoverno».[34] L’Italia necessita dal 2013 in avanti di dirigere il corso di un nuovo ordine, che abbia per fundamentum un rinnovato contenuto spirituale, «un nucleo romantico di pensiero», il cui fine sia l’inserimento del popolo italiano nella vita politica attiva della nazione e delle nazioni per migliorare, educare il Paese e noi stessi, chiamati a farci pienamente Italiani, europei, cittadini del “villaggio globale”, in competenza e responsabilità.

Può darsi che non siamo pienamente responsabili per la situazione in cui ci troviamo, ma lo diventeremo assolutamente se non agiremo e reagiremo tutti, uniti, per cambiarla![35]



[1] Dante, Pg. VI, 76
[2] Trad. it. «fare, operare una scelta; decidere»
[3] A. Einstein, The world as I see it, trad. it. W. Mauro, Il mondo come lo vedo io, Newton Compton, Roma 2010, passim. «Let’s not pretend that things will change if we keep doing the same things. A crisis can be a real blessing to any person, to any nation. For all crises bring progress. Creativity is born from anguish, just like the day is born from the dark night. It’s in crisis that inventiveness is born, as well as discoveries made and big strategies. He who overcomes crisis, overcomes himself, without getting overcome. He who blames his failure to a crisis neglects his own talent and is more interested in problems than in solutions. Incompetence is the true crisis. The greatest inconvenience of people and nations is the laziness with which they attempt to find the solutions to their problems. There’s no challenge without a crisis. Without challenges, life becomes a routine, a slow agony. There’s no merit without crisis. It’s in the crisis where we can show the very best in us. Without a crisis, any wind becomes a tender touch. To speak about a crisis is to promote it. Not to speak about it is to exalt conformism. Let us work hard instead. Let us stop, once and for all, the menacing crisis that represents the tragedy of not being willing to overcome it»
[4] Ibid., passim.
[5] Dante, Pg. VI, 77
[6] S. Gastaldi, Introduzione alla storia del pensiero politico antico, Laterza, Bari 2008, pp. 39-40
[7] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, LEV, Città del Vaticano 2005, n. 168
[8] P. Gobetti, La Rivoluzione Liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, RCS, Milano 20113, p. 181
[9] Ibid., passim
[10] Cfr. M. Weber, La politica come professione, Mondadori, Milano 2009, passim
[11] Cicerone, De imperio Cn. Pompei ad Quirites oratio, 6 (www.thelatinlibrary.com)
[12] J. Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien, trad. it. D. Valbusa, La civiltà del Rinascimento in Italia, Newton Compton, Roma 1994, p. 25
[13] Cfr. L. Balestra, Cos’è l’Europa? Fabbisogno di una cultura per l’unità europea, in Civitas. Rivista quadrimestrale di ricerca storica e cultura politica, anno VIII – Nuova Serie, n. 2-3/2011, p. 133: «È forse anacronistico e singolare designare con l’antico titolo senatorio romano di “patres”, gli ispiratori ideali e fattivi dello spirito unitario europeo? Schuman, De Gasperi, Adenauer, Monnet, Dante: il “Senato d’Europa”».
[14] F. Chabod, L’idea di nazione, Laterza, Roma-Bari 199911, pp. 19-20 (nota 2)
[15] A. Manzoni, Marzo 1821, vv. 29-32
[16] F. Chabod, Storia dell’idea di Europa, Laterza, Roma-Bari 19952, p. 171
[17] Cfr. M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994
[18] Compendio della dottrina sociale…, cit., n. 395
[19] Cfr. S.S. Wolin, Politics and Vision. Continuity and Innovation in Western Political Thought, Little Brown, New York 1960, tr. it. R. Giannetti (a cura di), Politica e visione. Continuità e innovazione nel pensiero politico occidentale, il Mulino, Bologna 1996, p. 61
[20] Ibid., p. 36
[21] Ibid., p. 43
[22] A. (card.) Scola, Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Marsilio, Venezia 2007, pp. 169-170
[23] N. Machiavelli, Lettera a Francesco Vettori (10 dicembre 1513), passim
[24] Platone, Politico 258C
[25] Seneca, De vita beata, I, 1
[26] R. Kennedy, Discorso del 18 marzo 1968 (Università del Kansas): «Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull'America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani».
[28] Aristotele, Etica Nicomachea 1094 b, 4-6. Cfr. S. Gastaldi, Introduzione…, cit., pp. 144-145
[29] Ibid., X, 7, 1177a 12-18
[30] E. Montale, Felicità raggiunta, da Ossi di seppia, in Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1984, vv. 2-4
[31] Compendio della dottrina sociale…, cit., n. 164; Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 26: AAS 58 (1966) 1046; cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1905-1912; Giovanni XXIII, Lett. enc. Mater et magistra: AAS 53 (1961) 417-421; Id., Lett. enc. Pacem in terris: AAS 55 (1963) 272-273; Paolo VI, Lett. Ap. Octogesima adveniens, 46: AAS 63 (1971) 433-435
[32] P. Verlaine, Langueur, tr. it. L. Frezza, in P. Verlaine, Poesie, Feltrinelli, Milano 1964, vv. 1-11
[33] P. Gobetti, La Rivoluzione Liberale…, cit., p. 13
[34] Ibid., passim
[35] Cfr. M.L. King, Aforismi