CIVITAS 2-3/2012
Italia, Europa: prospettive 2013
ITALIA, EUROPA: PROSPETTIVE 2013
CONTRIBUTI
Roberto Mazzotta • Agostino Giovagnoli • Franco Riva • Giuseppe Bianchi • Marco Ricceri • Nino Galloni • Giuseppe Alvaro • Gennaro Acquaviva • Paolo Maria Floris • Laura Balestra • Max Weber • Claudio Vasale • Ugo De Siervo • Francesco Malgeri • Emanuele Mariani
KRISIS
IL VALORE DI UNA SFIDA ALLE SOGLIE DELLA TERZA REPUBBLICA
(di Laura Balestra)
http://www.sturzo.it/civitas/index.php?option=com_content&view=category&id=77&Itemid=117
Krisis:
il valore
di una sfida alle soglie della Terza Repubblica
Una
critica elegia
L’Italia del 2012 è stata l’Italia della
techne e della presunta ratio oeconomica risanatrice, che mal ha svolto i propri conti con il pathos, il sentimento, le passioni, le
aspirazioni, le speranze e le illusioni dei nuovi martiri indistinti, straziati
alle porte della Terza Repubblica. Il “pareggio di bilancio” forzoso
sforza e sferza tuttora corpi dall’anima infranta, in nome d’una auspicata risoluzione
però inefficace, che viziosamente sfiorisce e asseta, generando, infeconda,
insolute questioni all’orizzonte, per chi ha ancora vigore d’uno sguardo. La
nazione, seppur ne esista un cardine spirituale unitario sempre di là da venire,
è affamata, sfinita demoralizzata.
«Ahi
serva Italia[…]»[1]:
quante cose da fare! In questo agendae
rei tempus, nessuno spirito d’Italia pare così ardito da ergersi a
vessillo d’una nuova idea che sia rinascita e fede in un futuro apparentemente non
più in vista. Sapere in quale direzione incitare il galoppo, fare,
spronare senza avere sentiero dinanzi agli occhi che possa essere seguito, dove
ogni rotta è nebbia. L’Italia, oggi, incipiente destriero che turbina su se
stesso, chiedendo senso e direzione alla corsa. Senso smarrito, volto contrito,
cuore in tempesta, animo in folle mania dolorosa, gocce battenti che cancellano
ogni traccia di via.
Dove
andare, cosa fare? Come spezzare le
catene del sopravvivere comune? Ognuno avverte potente il dolore d’un ostello
di solitudine e la ragione non ha più ragionevoli pensieri da sottoporre alla
mente sconvolta. Tutto è vaghezza. Luci, voci, attese d’una oscurità che si
rincorrono furiose in quella foschia di vapori ferrigni che inonda, solerte, l’inquietudine
di uomini e donne d’Italia.
Dove
andare, cosa dover fare? Il da farsi
e il darsi da fare lungimirante di un’Italia fiaccata dalla crisi mondiale
avrebbe avuto un solo nome, nel passato glorioso, da opporre all’angoscia: agenda, termine del cui valore attivo solo gli antichi conoscevano il
senso. Agire per non essere agiti. Agenda:
“cose da fare”, ciò che inesorabilmente, inevitabilmente, necessariamente deve
essere fatto, ma in quale modo e a che scopo? Celebrare una nova aetas, una novitas rinascente contrastiva d’un buio periodo da rischiarare,
laddove tutto appare critico.
“Crisi” è la parola-simbolo divenuta
stendardo dello stato presente di eventi, che hanno attanagliato nella morsa i
nostri mondi, da un capo all’altro di quelle terre che si distinguono e
s’affratellano per innumerevoli ragioni, sebbene sovente irragionevolmente
sottaciute. Eppure quest’emblema che, pronunciato, sembra, assoluto, sciogliere
in una ormai accettata realtà soccombente frustrazioni purtroppo incombenti, ha
una radice ben più robusta delle nostre fiacche paure. I Greci definivano krisis una scelta, dettata da decisiva
capacità di giudizio e discernimento. Krisin
poieisthai[2]
era per l’Ellade semplicemente l’atto di compiere una valutazione e non aveva
nulla di per sé angosciante, se non le conseguenze derivanti dal distinguere e
decidere una via piuttosto che un’altra, una volta postisi in direzione d’essa.
Cos’ha condotto oggi al cambiar mente, considerando krisis, non come istante del progresso, attimo della decisione, bensì
efferato artiglio negativo?
Tutto dipende dalla prospettiva con cui si scruta il
Reale e, forse, si necessiterebbe di un genio, un ingenium, capace di vedere l’inconcesso.
«A crisis
can be a real blessing to any person, to any nation[…]»[3]
The world as
I see it è il titolo di un saggio, «un’antologia di scritti sull’uomo» di Albert
Einstein. Ecco, forse, l’uomo di genio che dal passato prossimo della cultura
europea e mondiale sovviene a riflettere un lume razionale e passionale sulla
tenebra del tecnicismo apatico.
Non
pretendiamo che le cose cambino, se continuiamo a fare sempre le stesse cose.
Una crisi può essere la migliore benedizione per ogni persona, per ogni
nazione, per tutto, perché la crisi porta progresso. La creatività nasce
dall’angoscia, proprio come il giorno nasce dall’oscura notte. È dalla crisi
che nasce l’inventiva, così come le scoperte e le grandi strategie. Chi supera
la crisi supera se stesso senza essere superato. Chi attribuisce alla crisi i
propri insuccessi e disagi, inibisce il proprio talento e ha più rispetto dei
problemi che delle soluzioni. La vera crisi è la crisi dell’incompetenza. La
convenienza delle persone e dei Paesi è di trovare soluzioni e vie d’uscita.
Senza crisi non ci sono sfide e senza sfida la vita è una routine, una lenta
agonia. Senza crisi non ci sono meriti. È dalla crisi che affiora il meglio di
ciascuno. Senza crisi ogni vento è una tenera carezza. Parlare della crisi
significa promuoverla. Non nominarla vuol dire esaltare il conformismo. Invece
dobbiamo lavorare duro. Fermiamo, una volta per tutte, l’unica crisi che ci
minaccia, cioè la tragedia di non voler lottare per superarla.[4]
Arduo è il tentativo d’attribuire un significato ai
fenomeni in atto. Nell’indistinta, fosca realtà odierna l’Italia ha vissuto e
continua a vivere divelta, ghermita, afferrata fra due scelte costantemente in
atto, che sorgevano per gli antichi, al tempo del gladio e dell’arena, a
ricordar come l’inerzia fosse incapacità a sopravvivere volontariamente alla
sfida. To act or to be acted upon: questa
la legge dell’anfiteatro, bivio critico fra l’agire e l’essere agiti da
qualcuno o qualcosa d’altro che non sia il proprium.
Manca la lucida analisi del cambiamento epocale che il mondo sta vivendo o a
cui, meglio, pur tentando, non sta sopravvivendo, perché «il fare sempre le
stesse cose» – avrebbe detto Einstein
– o forzare subitaneo il mutamento di
rotta, altro non produce se non dirottamento, una dantesca «nave sanza nocchiere
in gran tempesta».[5]
La techne,
per sua natura predisposta al metodo, all’espediente che è, a volte, tranello e
inganno, s’è, a mio parere, ingannata della maniera smaniosa e d’eccessiva
potenza capace che, nei fatti, l’ha sopraffatta, macchinando e decidendo cosa
tecnicamente poteva e doveva, forse, essere fatto, ma senza preparazione abile
a percepirne le macchinose conseguenze. L’Italia in crisi ha affidato se stessa
al téchnema degli antichi chrestòi[6],
le persone
valide, realmente capaci e dabbene cui delegare incarichi di responsabilità.
Può, tuttavia, questa essere la soluzione? La physis della polis e dei politikoi quale logos opporrà, in futuro, alla techne?
La classe politica italiana è chiamata ora ad una metanoia senza precedenti, un ripensamento, una conversione, una
rivoluzione morale e spirituale, che sia finalmente comprensione e comunione di
intenti e di azioni, il cui fine ultimo si rivolga a quell’araba fenice che è
il Bene comune, primaria «ragion d’essere dell’autorità politica».[7]
Se il governo dei technikoi ha
contrastato la crisi, valutando esclusivamente la res oeconomica, successivamente un governo adveniens di politikoi competenti
ed eticamente ispirati da una renovatio
senza precedenti dovrà agire premurandosi di tutelare le res humanae e la dignitas,
più in generale la res politica,
affinché si stabilisca nel Paese un “Nuovo Rinascimento” e non un eterno
affastellante ritorno dell’identico, tutt’intento a mercanteggiar tra piazze e
strade della finanza. L’intellettuale Piero Gobetti, assorto e
attento a de-finire il finis, che è
scopo e limite, tra politica e scienze (technai)
strumentali ad essa ancillari, così s’espresse nel saggio La Rivoluzione Liberale:
Se
la parola decisiva spetta, senza appello, al politico l’indagine economica non
ci darà lo specifico infallibile, ma appena dei punti di riferimento. Tutto il
valore della tecnica si deve esaurire nel suo carattere di strumento e di
coefficiente. L’uomo di Stato starà attento al consiglio dell’economista, ma lo
subordinerà agli altri fattori storici.[8]
[…] L’economista rimane fedele al suo limite scientifico, suggerisce criteri di
buona amministrazione, espone i risultati della sua esperienza isolata e
ristretta secondo ipotesi e astrazioni quasi matematiche, o secondo misure
semplicemente descrittive. L’economista constata l’esistenza di un problema
finanziario, burocratico, monetario, offre l’anatomia dei processi di
produzione della ricchezza in un determinato momento storico: ma la sua
osservazione resta sul terreno delle premesse e dei sintomi.[9]
La politica è un’«attività autonomamente
direttiva»[10], così
ne avvertì la natura precipua Max Weber, una vis activa, vòlta a dirigere e a influire sulla direzione dello
Stato; le scienze ancillae rei politicae
recano un potenziale consultivo, mirabile, ma non direttivo: la nostra Italia,
ora, ne è lo specchio che riflette e impone una riflessione. Tuttavia, la
voce della nazione sembra ancora tacere e nessuno, di certo, si considera
“benedetto” da krisis o dal tentativo
d’economia risanata! Gli italiani hanno mente e cuore per reagire? Esiste un
reale potere della nazione, una forma
mentis politica protesa alla felicità e al Bene comune? Dall’armonia
disfatta chi ricomporrà l’homonoia?
«Causa quae sit, videtis: nunc, quid
agendum sit, considerate»[11],
tuonerebbe un antico amante della respublica,
quale fu Cicerone. Ma si può con certezza sostenere che tutti abbiano percepito
la causa che ha condotto alla crisi, a Gordio, all’attimo della decisione e che
ora, tutti siano in grado di considerare, ciascuno per se stesso e per la
patria, quid agendum sit? Che cosa si
deve fare, quando la tecnica sottrae potere al potere e la politica snatura il
proprio impegno civile, perché fluttuante sull’onda di un disimpegno politico
imperante? S’è finalmente desta l’Italia della crisi? Si pugna, si vince per
superare e affrontare la scelta? Chi
cavalca quest’ora e raccoglie la sfida? Posta la meta come limite valicabile,
quali strumenti si dispongono atti allo scopo? Tra le Alpi e il mare non s’ode
ancora alcun squillo di tromba, eppure in catene il sostrato è fremente
nell’incertezza dominante!
Un miraggio
politico: la Nazione
Ogni storico indaga e perlustra i meandri di memorie
trascorse al fin di gettar luce sul presente. «Nell’ampio mare nel quale ci
avventuriamo», scrisse un tempo Jacob Burckhardt, «le vie e le direzioni
possibili sono molte» e «[…] in una storia della civiltà, la difficoltà più
grave sta appunto nel dover rompere la continuità del processo storico,
scomponendolo in parti che spesso sembrano arbitrarie, per giungere a darne
comunque un’immagine».[12]
Qual è l’eidos che l’Italia riflette
negli specula altrui e nel proprio?
Come riverbero d’un Dioniso fanciullo, assetato distruttore d’ogni alto
effetto, il Paese deplora un riflesso consunto, umbratile sembianza dell’antica
Signora dalla munifica cultura, corte degli spiriti magni dell’ingegno. Se solo
s’accorgessero gl’Italiani d’essere culturalmente la nazione più avanzata del
mondo, allora il riafferrar le memorie di Roma e i fasti dell’antico
precorrerebbero i tempi morti di una deminutio
affliggente, incapace di scuotere la natio
a farsi guida e meta delle sorti sue e d’Europa! Uscisse dallo “stato di
minorità” che ella, Italia, deve, sola, imputar a se stessa, perché incapace di
valersi ora del lume vero d’una ratio
che è traditio, memoria di quei popoli che, da un capo all’altro dell’humanitas, grande fecero la Storia
d’Italia: non volgo disperso, ma unita nazione! «Solo se saremo uniti saremo
forti. Solo se saremo forti saremo liberi», tuonava De Gasperi. Il grido
dell’Italia unitaria, cui tesero gli sforzi di tutti o di molti nel
Risorgimento e, ancor prima nei secoli entusiasti della letteratura dantesca e
petrarchesca, e successivamente nelle voci accorate dei moderni “patres” d’Italia e d’Europa[13],
non può né deve rimanere un talento raro di spiriti
magni, un entusiasmo di maestri
d’arme letteraria e genio politico, bensì costituirsi afflato comune e
spirituale, fede d’unità e speranza, che colmi il vuoto abisso e baratro della
perversa mania di chi vi s’abbandona, inerte, inerme, inane.
«[…] L’idea moderna di nazione […] è
coscienza piena di se stessa, della propria ‘individualità’, costituita dal
passato e dal presente, dalle tradizioni storiche come dalla volontà attuale di
essere nazione».[14] Il
Medioevo, le riflessioni di Dante, l’anelito del Romanticismo, l’esortazione di
Manzoni e del Risorgimento bramarono una
Italia, «una gente, una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di
cor»[15],
eppure il desiderio ha per secoli indugiato nella contemplazione meramente
teoretica d’un ideale, senza dar atto ad alcuna espressione visibile, concreta
d’esso. Dov’è la nazione? Da più voci s’invoca responso. Dove mai la libertà sì cara alberga nel fato d’un
popolo che possa proclamarsi tale, unitario, identitario? Quale identitas, quale idea ha e dà di se stessa l’Italia all’Europa, al mondo delle
nazioni e degli Stati? La nozione formale, che è specie e criterio del proprio
carattere individuale, ha aspetto fugace e ingannevole in Italia, nazione solo
di nome, purtroppo non consegue da tempo il fatto, l’agito, l’edificazione
spirituale, manto manifesto sul Paese reale. L’Italia è vittima della medesima
crisi d’identità e cultura cui soccombe incosciente l’Europa, grandioso fragile
organismo disarticolato, colosso di res oeconomicae
senz’humanitas, fiacca nel senso
morale, lacera nelle categorie che la resero immortale patria di Pericle e del
grand’Alessandro, di Cesare e d’Augusto, del Rinascimento e del secolo di Louis
XIV, dell’inno accorato della Bastiglia e della volontà di nazione
risorgimentale. Se Roma, nel suo vasto dominar antico propugnava il divide et impera, quale dogma politico
che efficiente rendeva l’amministrar nationes
diversae, senza cura però dell’anima spirituale e fraterna delle genti, il
mondo dopo Roma conobbe la fides e l’agape, la novitas del Cristianesimo affratellante, che edificò l’Europa
moderna su colonne invisibili e trascendenti, innegabilmente greco-romane, irrefutabilmente
cristiane. Tali fundamenta riconquistano per anamnesi il senso proprio
d’Europa, che «è senso di solidarietà
morale e di connessione spirituale».[16]
L’Europa ha bisogno di definire se stessa con chiarezza, così come le nazioni
che s’armonizzano in essa e, solo afferrando il carattere individuale di sé e
dell’Altro, si potrà finalmente nomare l’identità europea posita e ascosa nella screziata varietas
di dissonanze armoniche, che sono pròblema
e agòn e, al contempo, logos unitario.[17]
Politica e
Visione
«Il soggetto dell’autorità politica è il
popolo»[18],
ma laddove quest’ultimo perda di vista l’orizzonte valoriale della propria dignità
umana e autorità sovrana, quale soteria
si porrebbe come salutare via per risanar le coscienze? Quale facies politica si prospetterà
in Italia dal 2013? In questo frangente, al vero uomo politico s’impone il
compito e il dovere di avere, pensare, agire secondo una visione di natura politica.
Ogni singolo aspetto della società va ora meditato, visionato, immaginato,
auspicato, prospettato con acribia meticolosa, perché si agisca poi, in via
successiva, con criterio. «Sempre la pratica dev’essere edificata sopra la bona
teorica», sosteneva quel genio mirabile di Leonardo e mai affermazione fu più
vera e calzante nella politica che s’intende far nuova in questo momento:
politica pratica e teorica, praxis e theoria. Bisogna farsi visionari laddove
il quadro d’insieme sfumi indistinguibile i propri profili: corre l’obbligo
morale di rinascere teorici di mai create realtà possibili. Theorein in greco vuol dire vedere e il teorico è colui che,
teoreticamente, informa il proprio agire pratico sulla base del senso dato ai
fenomeni, còlto per immagini, nella propria mente. Ogni teoria, dalla
letteratura alla scienza, passando per tutti i campi trasversali del sapere che
richiedano quale premessa ad una buona azione una altrettanto buona visione,
sovrastruttura idealmente le dinamiche propriamente attive. Considerare,
riflettere, giudicare, cogliere e comprendere il senso nascosto di ciò che è o
dovrebbe essere, nel tentativo di imprimere forma alla sostanza, azione al
pensiero: cos’è e che funzione può avere, adesso, una teoria in politica?
Intuire o definire la veste concettuale d’una contemplazione, che è parimenti
partecipazione e meditazione dirimente la critica impasse italiana, equivale a
sistematizzare un’idea per cui «il caos della vita politica viene plasmato in
base alla visione ordinatrice del Bene».[19]
Armonia, pace, buon governo, equilibrio, giustizia, per non citare qui i greci eunomia, homonoia, isonomia o i
latini pax, ordo, concordia, etc, i
quali cos’altro connotano, dal passato al presente, se non un’intima esigenza
ordinatrice dell’intelletto pensante? È necessario, in questa fase di supplenza
amministrativa in Italia, che i politici si facciano filosofi, cacciatori
amanti di Verità, che ponderino e tengano la rotta tracciata sulle mappe del
buon governo.
La visione del filosofo
politico è improntata al kosmos: adaequatio rei ad intellectum. Adeguare
la cosa all’idea di essa, l’agire al pensare, secondo una disposizione regolata
da armoniose leggi teoriche, viste in nessun altro luogo che nella mente
dell’avente visione.
Cosa vuol dire, dunque, avere visione
politica? Vuol dire avere un’immagine della realtà, della realtà politica nello
specifico e, in base a tale eidos,
progettare un sistema migliorativo di ciò che è, tentando di approssimarlo a
come esso dovrebbe essere, in via realizzativa. Visione è una via prospettica
dei fenomeni politici, ma non va confusa o semplicemente ridotta al puro atto
percettivo della vista, fondamentale infatti sarà il connubio associativo di
percezione fisica e immaginazione intellettuale. Immaginare un modello e ad
esso conformare una realtà, declinata nelle sue istanze pratiche, colmare la
distanza naturale che si interpone fra teoria e prassi, sanare il divario fra
il possibile immaginato e il reale da iconizzare è impresa ostica e faticosa. Il
vero uomo politico possiede, quasi connaturata al suo essere, un’ontologica
dimensione progettuale e, sebbene egli non sia un teorico, un filosofo,
tuttavia, nihil obstat che possa
essere chiamato a farsi tale, qualora una necessità imperante lo richieda, al
fine di restituire un volto condiviso e credibile alla classe cui appartiene e
alla gestione del Paese che gli pertiene.
L’“avere una visione” non
vuol dire, certo, esseri visionari in senso negativo, immaginare è ben diverso
dal fantasticare, c’è una sorta d’amorosa corrispondenza fra Ideale e Reale e,
in tal senso, fondamentale, risulterà essere la «dimensione futuristica» della
visione, che proietta l’ordine politico in un tempo a venire.[20]
Tra i nostalgici del temps perdu e i
pionieri del futuro, le teorie riorganizzano la tradizione nell’innovazione e
l’innovazione nella tradizione. «Proprio come la storia non ripete mai se
stessa, così l’esperienza politica di un’epoca non è mai assolutamente identica
a quella di un’altra» e sovente si incontrano «pensatori politici, collocati in
due differenti momenti storici, che usano gli stessi concetti attribuendo loro
significati diversi […]. Il risultato è che ciascuna teoria filosofica
importante contiene in sé qualcosa di unico […] così come qualche elemento
tradizionale».[21]
Ogni tradizione è l’esito di
una pratica memoriale incessantemente attiva nel recupero inventariale del
passato, teso a meta ultima di trasmissione innovativa nel presente e futuro.
Nel 2007 il cardinal Angelo Scola, nell’opera Una nuova laicità, in una bella immagine descrisse ‘il Nuovo’ come
inventario dell’antico e dall’antico, scoperta della tradizione
nell’innovazione e dell’innovazione nella tradizione: «l’etimo della parola inventario […] (si ricollega ad) invenio, un verbo latino che indica la
scoperta di qualcosa di prezioso. Il significato di tale scoperta ha in sé una
duplice valenza. Da una parte richiama un fattore di novità – su questo
elemento fa leva l’uso della parola invenzione
per indicare qualcosa che non c’era prima. […] D’altra parte la scoperta
propria dell’invenzione può fare
riferimento alla messa in luce di qualcosa di già presente, anche se in qualche
modo in forma non esplicita. In questo senso si può dire che l’inventario è un
esercizio di memoria che
approfondisce la presa di coscienza della propria identità. Quell’identità che
non potrà mai essere individuata se con miope presunzione si prescinde dal
passato».[22]
È lecito nella modernità
resuscitare paradigmi o dogmi antichi? Nell’accezione originaria di dogma, ciò che sembrava bene o opportuno
agli antichi, potrebbe avere una valenza utile anche per i tempi attuali?
Nutrirsi di siffatta azione sarebbe anacronistico e traviante o, come consigliò
Machiavelli, vitale e incitante? L’antichità è una visione passata ma non
passiva e la mole di esempi cui ispirarsi parrebbe sterminata. Un corpus organico ed eterogeneo di modelli
si dispiega dinanzi alla modernità e, nella tipica prospettiva imitativa
rinascimentale, il Machiavelli statista e letterato non poté fare a meno di
interrogare l’Antico per vedere se ancora, ai suoi tempi, questo rispondesse e
corrispondesse lezioni validamente declinabili e attive.
Il metodo è fondere la
teoria nella prassi, unendo l’«esperienza delle cose moderne» e la «lezione
delle antique». Nella mente del sottile diplomatico fiorentino, la politica
pratica non è l’applicazione della teoria, bensì è quest’ultima a scaturire
dalla prassi come speculum di essa e
non viceversa, altrimenti tutti gli Stati ideali progettati dalle immaginazioni
degli uomini sarebbero stati realizzati «in vero». Si vedano anche i progetti
utopici di La città del Sole di
Tommaso Campanella e Utopia di Thomas
More. L’immaginazione della cosa è discorde dalla «verità effettuale» di essa.
Machiavelli non è un “visionario”, la sua idea è in realtà una pratica e la sua
politica è tutta improntata a un concreto e fattivo realismo. Eppure un
principio immaginifico, una visione ideale, emerge tra le pagine private del
politico-scrittore, quando libero dall’«ingaglioffarsi» quotidiano si
soffermava a meditar l’humanitas delle
«antique corti degli antiqui huomini».[23]
Cos’è questo se non un
vigile rapimento estatico? Un dialogo familiaris
fra il nuovo e l’antico, in cui la ragione in-tuisce, ficca lo sguardo nella
visione dell’antica corte e ne attinge mirabilia.
Non c’è affanno o noia, la dimensione è sospesa nel tempo e nello spazio, non
v’è luogo (ou-topos), non v’è più
tempo, eppure mai il Machiavelli politico cede il passo all’u-topia, mai vuole
abbandonarsi ad una immagine irriproducibile nell’esperienza e, nella
corrispondenza di sensi fra sé e gli antichi, egli esperisce la lezione dei
classici e la traduce in un’opera, il cui carattere fondamentale è l’utilità pratica: il Principe, essere bifronte, volpe e leone, mezzo uomo e mezzo
animale, centauro, paragone mitico non mitizzato, incatenato alle leggi logiche
della prassi. La politica machiavellica è scienza pratica che dirige il corso
delle azioni.
La visione propria dell’arte
del governo, tuttavia, permane pur sempre come un cardine
immaginativo-progettuale che, a partire dallo Stato ideale teorizzato da
Platone, si protrae nel corso dei secoli come iter di sintesi fra pensiero e azione e dimensione attiva e
ordinatrice della politica stessa. Visione è riflessione per immagini. «Dove si
troverà dunque il sentiero della politica? Occorre infatti trovarlo e, dopo
averlo separato dagli altri, imprimergli il sigillo di una sola idea e
contrassegnare le altre diramazioni con un’unica altra forma»[24],
scrisse Platone. Un sentiero e una visione, è sufficiente alla politike techne questo binomio di una
via che diviene meth-odos ed eidos tendente a meta ultima, per agire e reagire alla disfatta
contemporanea?
Molte menti e molti uomini ebbero visioni dal
passato al presente, immaginarono vie oniriche e reali per ascendere e
trascendere l’entelechia propria
dell’umana essenza. Ci fu un uomo, una volta, che prigioniero in un carcere
ebbe una visione, «I have a dream»:
il suo nome era Martin Luther King. La sua non era una visione illusoria,
aleatoria, utopica, svincolata dalla realtà, e come l’uomo della caverna
platonica, filosofo prigioniero che s’allontana e libera dalle catene della doxa (opinione) per dirigersi verso una
luce, verso un sogno che è poi realtà e verità, l’aletheia greca, così King seguì uno stesso sentiero, un odos precorrente verso un’idea-visione: a dream. Se ben si ricorda, il “philosophos” di Platone, che è già
ontologicamente politikos, una volta uscito
dalla caverna e contemplato il Sommo Bene, ebbe quest’impulso poi a rientrare
nel luogo oscuro da cui provenne per illuminare gli altri compagni suoi, per un
innato spirito di servizio, uno spirito politico di servizio, di diakonia, un servizio al servizio del
Bene comune, che è essentia e substantia di ogni agire politico.
La filosofia politica e il
filosofo politico, da non confondere con l’arte
politica né con il politico, possono avere un ruolo di chiarificazione e di
valutazione di ciò che è, approssimandolo a ciò che dovrebbe essere,
all’Ideale, ma il compito del teorico non è quello di occuparsi della praxis, della veste pratica dell’agire
politico, bensì solo della theoria.
La politica è una cosa estremamente seria, è l’ambito della nostra vita umana
in cui la responsabilità decisionale ha carattere vitale, vincolante e i
filosofi politici hanno un ruolo delicatissimo oggi, perché una visione
“visionaria”, che accechi la mente del teorico, può costantemente correre il
rischio di indurre all’errore e l’errore teorico, se riverberato sulla prassi,
ha un impatto negativo. Basti citare su tutti Aristotele che teorizzò la
politica come arte esclusivamente maschile e “libera”, relegando donne e
schiavi, i non liberi, a una dimensione extra-politica. L’Ideale ha una
funzione regolativa, la Visione
ha una dinamica cosmica, ordinatrice, ma il suo ambito è consultivo, la pratica
è ben altra cosa, ma può trarre dalla visio
progetti, ispirazione: a dream, il
sogno e la speranza della rinascita etica, culturale, spirituale, sociale
d’Italia e d’Europa.
La
ricerca della felicità
Tutti
desiderano vivere felici in questo momento più che mai, ma
«a vedere con chiarezza che cosa renda la vita
felice, hanno la vista annebbiata».[25]
L’intento tecnico-teorico, fattivamente utopico eppur imposto reale, di porre
un freno economico alla crisi che, apparsa primariamente come crisi
finanziaria, si è invece rivelata crollo e disfacimento d’una fragile facies nazionale e dunque spirituale,
coincide forse con ciò che comunemente viene definito ‘prosperità, felicità’ di
un Paese? Il benessere socio-economico è legittimato a farsi categoria
spirituale o reggente suppletivo di quell’universale dimensione valoriale che è
il Bene comune? Il 18 marzo del 1968, Robert Kennedy, in maniera accorta ed
evidente, sostenne come non si potesse allora - né si possa oggi, aggiungerei - possedere esatta percezione o misura dello
spirito di una nazione sulla base degli indici di borsa o del PIL, perché tali
indicatori arrecano ad ogni Paese il torto d’arrogarsi una visione d’insieme,
presupposta metron d’ogni cosa, scientificamente forse infallibile in
tutto ad eccezione di «ciò che rende la vita veramente degna d’essere vissuta»[26]:
salute delle famiglie, qualità della loro educazione e gioia, bellezza della
conoscenza e della saggezza di un popolo e del suo coraggio. Nel salto
temporale e spaziale dagli USA all’Italia, recentemente, si segnala il 46esimo Rapporto annuale del Censis sulla
situazione sociale del nostro Paese, il quale ha tratteggiato un quadro greve,
un’icona decadente il cui centro emotivo connota un divario insanabile fra «le
strategie istituzionali di rigore dei conti pubblici […] e le affannose
strategie di sopravvivenza dei vari soggetti sociali». Lo stesso Giuseppe De
Rita, presidente del Censis, in un’esortazione, che è in parte ammonizione e in
parte sollecitazione, ha chiarito come sia «ora di trovare un modo di governare
che si connetta ai processi reali, in una nuova sperimentazione di unità di
governo e di popolo».[27]
Chi attende,
dunque, all’edificazione della felicità d’Italia: l’oeconomia o l’humanitas,
la nazione o la nozione tecnica?
La politica è «la scienza architettonica» che
ha per scopo il Bene comune: in questi termini la elogiò Aristotele.[28] L’uomo,
per natura essere politico, realizza la sua umanità e felicità nella polis, tempio dell’architettura civile e
del senso più intimo dell’essere uomini politikoi.
Quae cum ita sint,
che cos’è la felicità? Uno stato emotivo continuo di benessere? Essa è ed ha un
valore assoluto o dipende forse dagli uomini e dalle condizioni del loro vivere
associati? Esiste una superdeterminazione statale-comunitaria della felicità,
intesa come universale felicità pubblica o si tratta piuttosto di una
dimensione d’acquisizione tutta interiore e personale, se non addirittura personalizzata
ed individuale per ogni uomo? È lecito parlare e definire la felicità o sarebbe più corretto indagare e considerare le felicità? Esiste una felicità
assoluta o relativa? In tempi di sfida e di scelta, di crisi è forse bene
interrogar la memoria per rinvenire e scoprire che voce avesse dato l’antica
Grecia, sostrato non unico ma unitario d’Europa, al sommo bene per l’uomo.
Il filosofo Platone era un pensatore sui
generis, a-topico o, meglio a-tipico, strano per certi versi, che però
condivideva con i pensatori suoi contemporanei l’idea che solo attraverso una
buona forma di governo l’uomo potesse raggiungere la propria felicità. A
parafrasare una nota citazione di san Cipriano, potremmo accorarci, poi, al
filosofo Aristotele nel suo antico, vincolante intreccio di felicità e Stato: extra “Polis” nulla felicitas! La
felicità era, per Aristotele, lo scopo ultimo della vita umana, un’attività
agita conformemente alla virtù più alta dell’essere umano, l’intelletto «realtà
divina, […] che ha nozione delle cose belle e divine», un’azione risolventesi
nell’attività contemplativa, l’energheia
theoretike[29],
un’energia vitale e valoriale per se stessa. Il filosofo di Stagira ravvisava nella politica l’arte capace di creare
le condizioni per la felicità dell’essere umano. Una buona comunità politica
entro cui la gestione del potere e i governanti che ad esso attendano abbiano
come fine il prendersi cura dei cittadini, trasfondendo in essi valori e
ideali, ispirati a giustizia e verità, creando la perfetta comunità e dunque le
precondizioni per l’originarsi di una dimensione attiva all’esercizio
dell’attività contemplativa, summa
della felicità umana, costituirebbe la migliore comunità possibile, governata
nel migliore dei modi possibili. In tal senso, la politica rivestiva un ruolo
fondamentale per Aristotele, il quale ben sapeva che vivere in una cattiva
forma di governo poteva causare povertà e conseguente continua ricerca, spesso
vana, dei propri mezzi di sussistenza, non riuscendo a realizzare quella
potenzialità unica e tipica dell’essere umano che è fare attività di pensiero,
teoresi, speculazione. L’espressione “ricerca della felicità” non è più
oggi aspirazione a un senso di benessere assoluto, all’eccezionalità, se
vogliamo, che peraltro è diventata norma, bensì aspirazione estrema verso la normalità,
che s’è invece tramutata in paradosso e meta ultima cui tendere, spesso invano.
La felicità non esiste forse più? Se per Aristotele essa coincideva con la vita
teoretica, contemplativa, resa possibile da un lavorio statale incessante,
vòlto a stabilire il complesso sereno di norme e atti garanti supremi della
normalità vitale e artefici di quell’insieme funzionale di condizioni basali
per la “felice” teoresi, oggi, l’assenza di ordine e regolarità nella società e
l’impreparazione dello Stato nell’assicurare ai cittadini la garanzia minima di
un vivere dignitoso ha, paradossalmente, concorso a minare la certezza umana
sul presente, la progettualità verso il futuro e, con esse, l’aspirazione
stessa alla felicità. Si sta come
d’autunno sugli alberi le foglie, ma non tutti siamo soldati, come in
Ungaretti, eppure lo stato presente di cose c’induce a scendere in piazza o in
campo a schierarci come precari combattenti in lotta con una quotidianità non
più posta quale certa sicurezza, ma terra di conquista, non data e sempre
anelata. Le forze dinamiche impresse all’agire di ognuno sospingono i più come
foglie al vento tra uno sciopero e una protesta, grida assordanti nello
sciabordare silente d’una società-fiume che tutto inghiotte e trascina, senza
istante di riflessione, piuttosto fulminea azione di trasporto e deposito ad
altri lidi, desolati. Grida soffocate, estenuate in cerca di risposte sociali e
politiche, garanti un tempo di quelle condizioni ab imis per la felicità, su cui ergersi nella forma divina e più
compiuta dell’uomo a contemplare l’Assoluto e oggi, apparentemente forse,
incapaci di offrire la benché minima garanzia, non tanto per la felicità come
la intendevano gli antichi, quanto per i presupposti stessi del vivere
associati, che, in regressione, sono diventati essi medesimi, adesso, il sommo
bene cui attendere, in senso assoluto.
Life, liberty and the pursuit of happiness:
nella Dichiarazione d’indipendenza degli
Stati Uniti d’America vita, libertà e ricerca della felicità si ravvisano
quali diritti inalienabili, principi sostanziali dell’uomo, stabiliti per esso
perentoriamente. Solo la felicità pare sfuggire al canone del positum per connotarsi come non concessa,
ma bramata, aspirazione in tensione. Non si ricerca la vita, non si ricerca la
libertà, si ricerca la felicità. Perché? L’inseguimento, la caccia a ciò che definiamo
con l’aggettivo “felice” sembra essere nata, connaturata all’essenza stessa
dell’essere umano. L’uomo non nasce felice ma insegue e ricerca, lungo tutto
l’arco della propria esistenza, una condizione felice, simile, nel suo
procedere, a un cacciatore, ad un indagatore, inseguitore che vive in continua
attesa di qualcosa sempre di là da venire, se non per brevi istanti, fugaci, attimi
irripetibili e passeggeri, felici appunto. Il sentiero è periglioso e
impercorribile, per la felicità si cammina come su fil di lama e agli occhi essa
è barlume che vacilla, il piede
incede verso lei, lieve, su ghiaccio che
s’incrina[30],
in perenne trazione fra desiderio e nostalgia. A leggere i segni di questi e
altri tempi, felicitas si va cercando
quale diritto di tutti, dunque è forse un ‘bene comune’?
La ‘felicità’
non è essa stessa il ‘Bene comune’ di una nazione, di un popolo, ma ne costituisce
tuttavia l’ypothesis, il substratum, il presupposto e, ad esso Bene,
rinviano i principi di dignità, unità e uguaglianza e sovente è stato definito
dalla Chiesa come «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che
permettono sia alle collettività sia ai singoli membri di raggiungere la
propria perfezione più pienamente e più celermente».[31]
Conclusione
L’Italia vive
ed è vittima d’un nuovo decadentismo. Essa langue come spettro d’un Impero alla fine della decadenza,
precaria ombra della propria esistenza. Tutto
è bevuto, tutto è mangiato! Niente più da dire!, cantava fiacco Verlaine. [32] Ma è davvero questa la realtà? È vano ogni
impegno, ogni prospettiva di rinascita? La krisis
greca che era prospectum ed auspicium, agiva così parimenti per
Einstein, saggio scrutatore della “crisi benedicente”, forza motrice
connaturata alla progressio societatis. L’Italia della crisi non
deve temere se stessa né quest’ultima, se vorrà dar più importanza alla
soluzione che al problema, dovrà altresì affrontare krisis, agire per evitare il rischio d’essere ancora agita. Il
metodo tracciato dalla techne ha
mostrato una via per spezzare il
ciclico ritorno dell’arido identico, privo di visioni lungimiranti, ma le
scienze ancillae della politica, se
da una parte possono suggerire i criteri del buon governo, dall’altra devono avvertire il limite scientifico - come lo definì Piero
Gobetti - della propria abilità e non cedere alla brama fascinosa d’una potestas che è politica e d’una auctoritas che è della nazione, del
popolo. «Il valore della tecnica – ammonì Gobetti - si deve esaurire nel suo
carattere di strumento», pena l’insana aspirazione alla creazione d’una civitas utopica, che fallirà
ogniqualvolta un cogitatum, una theoria astratta, nella velleità
d’essere l’esatto matematico che pone esito al problema, dimenticherà il senso
della praxis politica per cui essa
idea è sorta nella mente, scatenando un divario di strategie, un’impasse
insanabile fra Ideale e Reale. Che il potere salvi il potere! In virtù di un
principio di legittimità, che la techne
restituisca alla politica il trono che le è proprium,
posto che però il volto di quest’ultima sia davvero mutato, trasfigurato,
innovato nella metanoia ideale del
Bene comune. La parola decisiva spetterà ai veri politici, i quali dovranno
afferrare l’immutabile, incatenandolo ai dettami reali di ragione, contemplando
nella teoria politica la prassi e agendo nella prassi politica la teoria,
memori della traditio possente di
questo nostro Paese. La politike techne
è una scienza architettonica e direttiva, «una sorta di esperienza artistica di
tutto l’uomo»[33],
in cui le competenze richieste al suo esercizio si definiscono per una funzione
di supervisione generale sulla città e i suoi flussi vitali, con la figura del
politico a capo, insignito di una sorta di “investitura episcopale”, non
connotata religiosamente, bensì etimologicamente come episkopeia, sorveglianza e custodia sull’associato vivere della polis in comunità. Scrisse Gobetti,
sfiduciato, con sentore poetico e quasi profetico, che il popolo italiano è
stato per secoli «educato al parassitismo», mai sanato da un’atavica «malattia
feudale» e qualunque crisi esso si trovi a vivere altro non sarà se non la summa di tutte «le scarse attitudini
degli Italiani all’autogoverno».[34] L’Italia
necessita dal 2013 in avanti di dirigere il corso di un nuovo ordine, che abbia
per fundamentum un rinnovato
contenuto spirituale, «un nucleo romantico di pensiero», il cui fine sia l’inserimento
del popolo italiano nella vita politica attiva della nazione e delle nazioni per
migliorare, educare il Paese e noi stessi, chiamati a farci pienamente Italiani, europei, cittadini del “villaggio
globale”, in competenza e responsabilità.
Può darsi che non siamo pienamente responsabili per la situazione in cui ci troviamo, ma lo diventeremo assolutamente se non agiremo e reagiremo tutti, uniti, per cambiarla![35]
[1] Dante, Pg. VI, 76
[2] Trad. it. «fare, operare una
scelta; decidere»
[3] A. Einstein, The world as I
see it, trad. it. W.
Mauro, Il mondo come lo vedo io, Newton
Compton, Roma 2010, passim. «Let’s
not pretend that things will change if we keep doing the same things. A crisis
can be a real blessing to any person, to any nation. For all crises bring
progress. Creativity is born from anguish, just like the day is born from the
dark night. It’s in crisis that inventiveness is born, as well as discoveries
made and big strategies. He who overcomes crisis, overcomes himself, without
getting overcome. He who blames his failure to a crisis neglects his own talent
and is more interested in problems than in solutions. Incompetence is the true
crisis. The greatest inconvenience of people and nations is the laziness with
which they attempt to find the solutions to their problems. There’s no
challenge without a crisis. Without challenges, life becomes a routine, a slow
agony. There’s no merit without crisis. It’s in the crisis where we can show
the very best in us. Without a crisis, any wind becomes a tender touch. To
speak about a crisis is to promote it. Not to speak about it is to exalt
conformism. Let us work hard instead. Let us stop, once and for all, the
menacing crisis that represents the tragedy of not being willing to overcome it»
[6] S. Gastaldi, Introduzione alla storia del pensiero
politico antico, Laterza, Bari 2008, pp. 39-40
[7] Pontificio Consiglio della
Giustizia e della Pace, Compendio della
dottrina sociale della Chiesa, LEV, Città del Vaticano 2005, n. 168
[8] P. Gobetti, La Rivoluzione Liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia,
RCS, Milano 20113, p. 181
[9] Ibid., passim
[10] Cfr. M. Weber, La politica come professione, Mondadori,
Milano 2009, passim
[11] Cicerone, De imperio Cn. Pompei ad Quirites oratio, 6 (www.thelatinlibrary.com)
[12] J. Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien, trad.
it. D. Valbusa, La civiltà del Rinascimento in Italia,
Newton Compton, Roma 1994, p. 25
[13] Cfr. L. Balestra, Cos’è l’Europa? Fabbisogno di una cultura
per l’unità europea, in Civitas.
Rivista quadrimestrale di ricerca storica e cultura politica, anno VIII –
Nuova Serie, n. 2-3/2011, p. 133: «È forse anacronistico e singolare designare
con l’antico titolo senatorio romano di “patres”,
gli ispiratori ideali e fattivi dello spirito unitario europeo? Schuman, De
Gasperi, Adenauer, Monnet, Dante: il “Senato d’Europa”».
[14] F. Chabod, L’idea di nazione, Laterza, Roma-Bari 199911, pp. 19-20
(nota 2)
[15] A. Manzoni, Marzo 1821, vv. 29-32
[16] F. Chabod, Storia dell’idea di Europa, Laterza, Roma-Bari 19952, p.
171
[17] Cfr. M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi,
Milano 1994
[18] Compendio della dottrina sociale…, cit., n. 395
[19]
Cfr. S.S. Wolin, Politics and Vision.
Continuity and Innovation in Western Political Thought, Little Brown, New York 1960, tr. it. R. Giannetti (a cura di), Politica e visione. Continuità e
innovazione nel pensiero politico occidentale, il Mulino, Bologna 1996, p.
61
[20] Ibid., p. 36
[21] Ibid., p. 43
[22] A. (card.) Scola, Una nuova laicità. Temi per una società
plurale, Marsilio, Venezia 2007, pp. 169-170
[23] N. Machiavelli, Lettera
a Francesco Vettori (10 dicembre 1513), passim
[26] R. Kennedy, Discorso del 18 marzo 1968 (Università del Kansas): «Non troveremo
mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento
del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo
misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi
del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende anche
l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per
sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL
mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa e le prigioni
per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che
valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce
con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la
ricerca per migliorare la disseminazione della
peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per
sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si
ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle
nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro
momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei
valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri
pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali,
né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia
né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la
nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve,
eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci
tutto sull'America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani».
[28] Aristotele, Etica Nicomachea 1094 b, 4-6. Cfr. S. Gastaldi, Introduzione…, cit., pp. 144-145
[29] Ibid., X, 7, 1177a 12-18
[30] E. Montale, Felicità raggiunta, da Ossi
di seppia, in Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1984, vv. 2-4
[31] Compendio della dottrina sociale…, cit., n. 164; Concilio Vaticano
II, Cost. past. Gaudium et spes, 26:
AAS 58 (1966) 1046; cfr. Catechismo della
Chiesa Cattolica, 1905-1912; Giovanni XXIII, Lett. enc. Mater et magistra: AAS 53
(1961) 417-421; Id., Lett. enc. Pacem in
terris: AAS 55 (1963) 272-273; Paolo VI, Lett. Ap. Octogesima adveniens, 46: AAS 63 (1971) 433-435
[32]
P. Verlaine, Langueur, tr. it. L. Frezza, in P. Verlaine, Poesie, Feltrinelli, Milano 1964, vv. 1-11
[35] Cfr. M.L. King, Aforismi
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