Cos'è l'Europa?
Fabbisogno di una cultura per l'unità europea
(di Laura Balestra)
Trattare nello
spazio di un breve articolo l’annosa questione della ricerca di un comune
patrimonio culturale per l’Europa e a cui l’Europa possa attingere nel definirsi
tale e unitaria è quanto mai arduo e, per certi versi, periglioso per le
notevoli implicazioni politiche, sociali e religiose che essa reca
inevitabilmente con sé. Si intende qui procedere alla maniera questuante del
Socrate errante per le vie d’Atene, intento ad indagare il ti esti, il “che cos’è” delle cose…
Cos’è
l’Europa?
Nel sito web
ufficiale dell’UE, alla sezione “Informazioni di base sull’Unione Europea” si
legge: «L’Unione europea (UE) è un partenariato economico e politico tra 27
paesi, unico nel suo genere. Da mezzo secolo l’UE è un fattore di pace,
stabilità e prosperità; ha contribuito ad innalzare il tenore di vita,
introdotto una moneta unica europea e sta progressivamente realizzando un
mercato unico nel quale persone, beni, servizi e capitali possono circolare
liberamente come all’interno di uno stesso paese».
Procedendo, in un click, ai “Simboli dell’UE”, si trova un elenco, per così
dire “anagrafico” delle generalità d’Europa: la
bandiera, in cui «le 12 stelle in cerchio rappresentano gli ideali
di unità, solidarietà e armonia tra i popoli d’Europa»; l’
inno, tratto «dalla Nona sinfonia di Ludwig van Beethoven, composta
nel 1823»; la
festa, il 9 maggio, in
memoria di quel 9 maggio
1950
in cui «gli ideali dell’Unione Europea sono stati enunciati
per la prima volta […] dal Ministro degli Esteri francese Robert Schuman»; il
motto “Uniti nella diversità”, che in
latino suona
In varietate concordia
ed è stato scelto «ad indicare come, attraverso l’UE, gli europei siano
riusciti ad operare insieme a favore della pace e della prosperità, mantenendo
al tempo stesso la ricchezza delle diverse culture, tradizioni e lingue del
continente».
Le informazioni
di base, in genere, dovrebbero affrescare un quadro d’insieme esaustivo, eppure
lasciano, in questo caso, un eventuale indagatore non del tutto soddisfatto. Il
profilo d’Europa che emerge trae davvero la propria natura nei tratti
caratteristici di partenariato, economia, politica, bandiera, inno, festa e
motto? Si brancola, pare, nell’alveo dell’indistinzione e verrebbe spontaneo
ribadire l’interrogativo iniziale: ma cos’è l’Europa? Qual è la sua essenza
profonda, unitaria, identitaria che la rende tale e distinguibile da altro?
Forse la natura delle istituzioni operanti in nome d’Europa saranno maggiormente
illuminanti: «L’Unione europea (UE) non è una federazione come gli Stati Uniti.
Non si tratta nemmeno di un’organizzazione per la cooperazione tra i governi,
come le Nazioni Unite. È, infatti, un organismo unico nel suo genere. I paesi
che costituiscono l’UE (gli “Stati membri”) conservano la propria natura di
Stati sovrani indipendenti, ma uniscono le loro sovranità per guadagnare una
forza e un’influenza mondiale che nessuno di essi potrebbe acquisire da solo. Nella
pratica, mettere insieme le sovranità significa che gli Stati membri delegano
alcuni dei loro poteri decisionali alle istituzioni comuni da loro stessi
create in modo che le decisioni su questioni specifiche di interesse comune
possano essere prese democraticamente a livello europeo».
Un organismo
unico nel suo genere, esteticamente definito, parrebbe, nelle sue direttrici
essenziali, sebbene nessuna delle definizioni finora proposte ne definisca
l’essenza. L’Europa si staglia sovrana, ma come un «tempio senza santuario»
,
privo del
quid sacrale che d’ogni
templum è essenziale fondamento. Sappiamo
che l’Europa accentra in sé un’unione di 27 Paesi, è aperta a nuove candidature
di adesione a divenire Stati membri, è fondata su un sistema economico e
commerciale, la cui stabilità sta ultimamente vacillando, è politicamente
democratica, ma non è una federazione di Stati come gli U.S.A. né
un’organizzazione per la cooperazione tra governi come le Nazioni Unite,
ebbene, si è in presenza di un’elencazione piuttosto sterile di ciò che
l’Europa è e di una altrettanto inefficace definizione di ciò che essa non è.
Essere o non essere: questo è, da sempre, stato il problema! Giungere a
stabilire ciò che si è o non si è mediante la differenza
per oppositionem, alteritaria rispetto ad un altro Sé identitario,
può costituire un buon punto di partenza per comprendersi e comprendere l’Altro,
nella cui di-versità iniziale si potrà certo riscontrare una primaria
av-versità, tuttavia ricomponibile entro l’idea di diversità intesa come
essenza positiva e non in-essenza oppositiva, ma in queste definizioni date si
assiste ad una sorta di punto d’arrivo senza meta statuita. L’Europa sa ciò che
non è, ha una vaga percezione generica di ciò che è e su basi esteriori
identifica se stessa, ma
in interiore
cos’è l’Europa? Qual è la verità che in essa alberga, se esiste? Qual è il suo
spirito? Quali sono le sue radici culturali? Qual è il senso dell’Europa? La
domanda sul senso ultimo e necessario delle cose emerge e s’impone solo quando
le cose in questione paiono perderlo. L’Europa sembra aver raggiunto il proprio
tramonto critico prima ancora, forse, di esser nata alle sue origini. Ricercare
l’
esse proprio dell’Europa, prescinde
dal suo agire esteriore, che non la qualifica, né la definisce in quanto tale. La
ricerca d’essenza, la tedesca
Wesensforschung,
è il metodo che conduce sulla via predicativa delle cose: il predicato
ontologico primo dell’Europa, della sua idea e cultura in quale elemento può
essere rintracciato? Arrischiare una risposta è tanto complesso quanto affascinante
e di certo, ciò che di rilevante si ricava dalle definizioni del Trattato di
Lisbona
, non
è sufficiente a stabilire il
ti esti
europeo: «mai in nessun luogo i semplici trattati hanno creato una
comunità, al massimo essi la esprimono».
La concezione
che l’Europa attuale ha di se stessa non può essere risolta in e da un trattato
ed è paragonabile, in ciò, alla
Gesellschaft
del sociologo Ferdinand Tönnies, una società che unisce senz’anima, una
panoplia senz’uomo, senza valori né radici e, stando così le cose, appare più
che chimerica l’utopia d’unire i popoli d’Europa sotto un unico blasone, in una
concorde
Gemeinschaft, comunità di
valori condivisi, «
unità nel differente»
:
ideale immagine che l’Europa vorrebbe, dovrebbe avere di sé. Scrive Tönnies:
«[…] mentre nella comunità [Gemeinschaft]
(gli individui) restano
essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella società [Gesellschaft]
restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono».
Ed è
quest’ultima affermazione a rappresentare specificamente, oggi, l’Europa,
la Gesellschaft europea,
un arcipelago senza mare che unisca isole sorelle, una sovra-nazione associante
più nazioni in qualità di sovrano organo collettivo. Ma, se proprio la
sovranazionalità, l’«
Übernationalität
Europa»
di Husserl divenisse più
di un mero legante economico-politico, edificandosi come trascendentale condizione
possibilitante la cooperazione attiva fra nazioni culturalmente e valorialmente
identiche, pur nella loro diversità? Il principio da cui avviare l’indagine,
vòlta a definire le linee direttrici di “una cultura armonica per l’Europa
unita”, si orienta lungo la via dell’incessante dinamica fra unità e pluralità
, il
methodos d’Europa, ed è in tale
dialettica tensionale che, seppur nell’apparente aposiopesi valoriale, anche
l’Europa
in fieri ha stabilito il
proprio
signum:
«in varietate concordia»,
il
logos del molteplice.
Ethos
e telos: chi siamo e dove andiamo?
È possibile
comprendere l’Europa a partire dall’Europa stessa? Esiste una nazione, un
evento o momento storico particolare che, solo, ne possa decretare la
caratteristica precipua? Atene, Roma, Gerusalemme, Medioevo, Umanesimo,
Rinascimento, Riforma e Controriforma, Poitiers (732 d.C.), Lepanto,
Illuminismo, Rivoluzione francese, Cristianesimo, Laicità, Relativismo,
Nichilismo? Ogni visione parziale non renderà mai l’idea dell’universale e il
tessuto culturale d’Europa è polidentitario, un
unicum, ma riconducibile ai molti, non all’uno. L’atto di
definizione del Sé identitario non può prescindere da tre domande fondamentali:
Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?
Il rimando all’arte pittorica di Gauguin è intuitivo ed immediato, ma non si
tratta, in questa sede, di figurare l’allegoria narrativa dell’uomo, bensì il
tentativo è rivolto a statuire il carattere e il fine dell’“essere europei”.
Esiste un
ethos europeo, una comune
“coscienza unitaria” fra le nazioni d’Europa? Esiste una mistica culla, una
mater trascendente, una
natio spirituale che educhi e allevi gli
orfani figli d’Europa? Scrisse Husserl che «l’Europa spirituale ha un luogo di
nascita in una nazione. Questa nazione è l’antica Grecia del VII e del VI
secolo a.C.».
I Greci, inventori della
filosofia e signori del
logos, che
tutti gli uomini affratella in un comune afflato razionale: il pensiero, la
«scoperta dello spirito».
Nell’afferrare
il proprio carattere, l’Europa lo scopre essere di greca natura, fondato sulla
Ragione, una ragione critica, che ha come proprio fine l’essere umano. Il nome,
il mito stesso di Europa intraprende la via, l’
odos che si fa
methodos,
da Oriente a Occidente, nel rapimento di una fanciulla fenicia sedotta dal
padre degli dei, condotta per mezzo del mare al di là del mare stesso e la sua
indole, all’apparire, si mostra già connessa e distinta da Asia, sorella d’essa
dalla medesima origine (
genos tautos).
Nella letteratura e nella storiografia greche, Europa ed Asia sono
kasignèta,
sorelle di sangue dall’unica e identica genesi e memoria, dove l’essere di
ciascuna si dà identità nel differire dall’altra. Cavalle oniriche dall’impeto
di-verso, allegoria dell’
ethos
proprio di ognuna, che sconvolge i sogni di regine antiche, persiane,
visionarie per simboli delle due potenze reali.
Nell’armonica dissonanza, l’interrogazione sul Sé e sull’Altro aggioga le
distinzioni senza escluderle, ma comprendendole, gettando il
pròblema del reciproco-distinto Essere
nella superiore unità del
Logos, il
quale «altro non potrà significare che l’originaria comunanza del differire:
l’esser-uno del molteplice proprio in forza delle differenze tra le sue
singolarità».
Così come la Grecia
scoprì la sua libertà nel separarsi e opporsi alla
douleia orientale, conquistando la fiaccola teoretica alla ragione
dell’uomo, così il Cristianesimo trovò se stesso, nella sua dimensione
universale, nell’innesto e successiva differenziazione dal giudaismo e dalla
“follia” pagana, divenendo
skandalon
esso stesso, confine limitante e limitato, nella
pars occidentale, dall’Islam; i Lumi s’accesero in contrasto alle
tenebre medievali, che pure ebbero ragione e ragioni per essere ciò che furono
e la francese libertà fraterna dell’uguaglianza capì se stessa assaltando la
roccaforte avversa dei privilegi anti-libertari. L’Europa è un «cantiere
tumultuoso e disordinato»
,
secondo la definizione di Edgar Morin, la cui cultura sussiste, vitale, in
conflitti e opposizioni, crisi e decadenze, vortici di interazioni che uniscono
e separano, opponendo in tensione costante
philia
ed
echtria, capace anche, in virtù
del Cristianesimo, di ricomporle in
philoxenia
o
agape ton echtron (Mt 5, 44). La
dinamica dei discordi plurali è al centro del suo genio logico e dialogico, che
la rende incessantemente «produttrice/prodotto» di istanze meticce, mutevoli,
di-verse/av-verse, ricche e complesse, affascinanti quanto ostili, inquietanti
e pur tuttavia necessarie nel loro essere ospiti feconde. Il
logos che le percorre da una parte
all’altra le sublima nell’
unicum che
è fondamento analogico delle diversità stesse. Il
logos-dialogos d’Europa è un
logos
polemikos, spazio di mediazione mnestico
fra istanze opposte che, nella vicendevole differenza, si uniscono fraterne: è
questo l’
ethos d’Europa, teso ad un
intento che, dall’alba ellenica, dall’uomo antico all’
uomo nuovo, per mezzo d‘un Impero e d’una croce, approda a fine
ultimo. Il
telos verso cui l’Europa
persegue quell’incessante anelito all’essenza di sé transita per il
medium del
logos. Il fine verso cui tende ed è stata chiamata a tendere l’idea
di Europa, la dinamica polisensa dell’Uninone Europea, dopo l’evento storico
del Cristianesimo, è la bifronte natura dell’essere umano: l’uomo e la donna,
la persona.
Telos è
Persona, nell’idea d’Europa, e nessun
tessuto semantico, nella storia d’Oriente e d’Occidente, ha riconosciuto un
valore tanto elevato alla persona, come l’alveo fecondo di quella fede che, del
logos incarnato, del Dio comunicatosi
Persona fece emblema dell’esistente e del futuro. L’
entelechia d’Europa si volge in una direzione,
de dignitate hominis, ma non intesa solo alla maniera dell’Umanesimo,
che nel suo antropocentrismo, tutto intento a far dell’uomo il protagoreo
metron d’ogni cosa, lo mutò in
sapiens,
faber senza Dio, artefice di se stesso, fondamento d’una nuova
religione, tutta umana, dell’uomo, per l’uomo e sull’uomo. La dignità da
recuperare, dopo il crollo dell’Umanesimo laico, è la
dignitas originaria del Cristianesimo che, a dispetto di Atene o Roma,
di Parigi o Philadelphia, riconobbe
tutti
fratelli senza distinzione alcuna di razza o genere, senza esigenza di recriminazioni
o contro-dichiarazioni di diritti
,
come proclamò, in tempi lontani eppur sempre vicini, quell’antico persecutore
divenuto apostolo delle genti: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più
schiavo né libero; non c’è più né uomo né donna, poiché tutti (sono) uno in
Cristo».
Questa fu la grande
rivoluzione del Cristianesimo, i cui principi andrebbero ricompresi e recepiti
ancora oggi, senza timori, dettati da una memoria volontariamente immemore del
proprio passato, nell’affaccendarsi a risultare il meno possibile invisa a
tutti. Decidere d’essere nessuno per lasciar che ognuno sia libero di vederci
come meglio crede equivale a non esistere, a non essere. Negare il proprio
passato è negare se stessi. L’Europa, soprattutto dopo la caduta del Muro di
Berlino,
limes fra Est ed Ovest, che
ha ridisegnato i confini geografici e storico-spirituali di quest’unione ancora
pienamente da raggiungere, necessita di una identità, da far maturare negli
anni a venire in frutti sempre nuovi, ma a partire da una salda radice, la
quale, tuttavia, costretta, vive nascosta in rinnegamento costante, sospesa in
attesa, al fin di tutti servire senza a nulla, effettivamente, in tale modo, servire.
Leggevo
recentemente di un’intervista al filosofo Remo Bodei circa il destino
dell’Europa in preda all’oblio di se stessa, ebbene, le vie che Bodei ravvisa e
suggerisce affinché questo «[…] gigante dai piedi d’argilla, formato da
ventisette Paesi con storie tutte diverse, in un’estensione che va dalle
Azzorre a Cipro, dal Circolo polare artico a Malta» ritrovi se stesso sono:
«una costituzione politica omogenea con rappresentanti credibili e la precisa
volontà di puntare sulla ricerca, investendo in innovazione e tecnologia».
Benché condivisibili, le vie prospettate dal filosofo sembrerebbero, a mio
modesto parere, non primarie alla determinazione del
gnothi seauton europeo.
Un uomo senza memoria della propria identità, seppur amministrato da un buon
governo e proteso egli stesso individualmente o in dimensione collettiva verso
l’innovazione e la ricerca, sarebbe pur sempre un uomo abissale, precario,
incapace di dar voce alla questione fondamentale: chi sono?
Avere una buona politica, avere uno
sviluppo tecnologico innovativo è ben lungi dall’
Essere e l’Europa esige primariamente un’
onto-logia e, in via susseguente, una
tecno-logia, o, se vogliamo, essa necessita di un senso, una
dimensione memoriale entro cui disporre attivamente le
technai funzionali al mantenimento della propria originaria armonia
che è
logos e
polemos, articolazione dialettico-teoretica questuante l’essenza.
Politica e scienza vi contribuiscono in maniera secondaria, se non come
declinazioni di ciò che
è da
principio l’
esse proprium d’Europa: il
logos.
Logos è il luogo del
cum-sensus e del
legein, il raccogliere il molteplice in unità, esso è parola
relazionale che, da una parte all’altra (
dia),
si fa
dia-logos, partecipazione,
condivisione con l’altro di ciò che propriamente è nostro (
unicum), relazione con altre unicità, eccezionali, diverse dalla
nostra e da altre ancora, tra loro irripetibili e discordi, impareggiabili ed
uniche ugualmente. L’Europa è armonia di
unica
non sopprimibili né riducibili
ad Unum,
essa non ha profilo storico o geografico teoreticamente limitato,
cum-prehensibilis, manifesta piuttosto
una
facies liquida come il
Mare di
mezzo dalla «legge rischiosa, vasto e diverso e insieme fisso»
, che
intesse le trame delle sue terre e civiltà, dalla terra dell’alba a quella del
tramonto, e fonda la propria identità su presupposti spirituali comuni,
edificantisi, come cripte vetuste innalzate in moderne cattedrali, sopra
l’antica-attuale dialettica socratica e la visione (
theoria) ideale platonica, frammiste ad un’evoluzione valoriale di
matrice cristiana, diretta ad un fine supremo e maggiore: l’
humanitas, la dignità dell’essere umano.
Idea dialettica, dialettica tragica, visione agonale e polemica, tragedia
spiritualmente irrisolta, che, nel viaggio dall’antico al nuovo, trova pace
nell’estatica commedia dell’
Amor
dantesco. L’
humanitas, in tal senso,
diviene il comune orizzonte valoriale verso l’acquisizione di una cultura
condivisa, obiettivo, peraltro, in principio avocato dai Padri fondatori
d’Europa, che fossero stati essi cattolici o agnostici, democratici cristiani o
socialisti
, come ricordò Giovanni
Paolo II nel discorso all’UNESCO del 2 giugno 1980: «La cultura è un modo
specifico dell’“esistere” e dell’“essere” dell’uomo. […] La cultura è ciò per
cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo, “è” di più, accede di più
all’“essere”. È qui anche che si fonda la distinzione capitale fra ciò che
l’uomo è e ciò che egli ha, fra l’essere e l’avere».
Dialettica tragica: le matrici culturali
d’Europa
Husserl
identificava la crisi culturale dell’umanità europea nell’allontanamento dalle
proprie radici culturali e dalla propria origine storica, ravvisando un esempio
rivoluzionario di rinascita connettiva alle origini, in prospettiva filosofica,
nel Rinascimento: «l’umanità europea attua durante il Rinascimento un
rivolgimento rivoluzionario. Essa si rivolge contro i suoi precedenti modi di
esistenza, quelli medievali, li svaluta ed esige di plasmare se stessa in piena
libertà. Essa riscopre nell’umanità antica un modello esemplare. […] Che cosa
considera essenziale nell’uomo antico? […] Nient’altro che la forma “filosofica”
dell’esistenza: la capacità di dare liberamente a se stesso, a tutta la propria
vita, regole fondate sulla pura ragione, tratte dalla filosofia».
La
filosofia nella sua forma classica, greca, la scienza della totalità delle
cose, la cura del sapere evidente ed innegabile, costituisce il sostrato
fondativo della cultura occidentale. L’Europa non ha una cultura che essa possa
definire propria, in ragione del fatto che il nome stesso di Europa è sinonimo
di
cultura, una cultura eclettica,
formatasi in una particolare dimensione di Alterità, nell’incontro con l’Altro,
nella consapevolezza del suo irriducibile valore.
L’
esse proprium
e
unicum d’Europa dipende e comprende
la sua radice essere intessuta per aggregazione alteritaria del molteplice e,
come tale, appartenente ad Altro: in ciò risiede il paradosso europeo. «La
questione dell’identità culturale d’Europa non può essere posta in modo
indipendente: è indissolubilmente legata alla questione del rapporto
dell’Europa con le altre civiltà, precedenti e/o esterne a essa. Per l’Europa,
il rapporto con se stessa passa attraverso il rapporto con l’altro».
La considerazione qui espressa da Rémi
Brague, filosofo francese, autore dell’opera “
La voie romaine”, tradotta in Italia, in maniera forse più efficace
ed esplicativa del tema trattato, con il titolo “
Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa”,
induce a riflessioni più ampie e complesse circa l’inchiesta sulle matrici
culturali d’Europa. Se di identità si possa validamente parlare, in sede
europea, ma in prospettiva dinamica e alteritaria, sarebbe lecito rinvenire le
vie identitarie di una cultura così varia in tre direttrici interpretative: la Secondarietà
romano-cristiana, l’Universalità, la Stranieritudine?
Tema caro a Rémi Brague e al card. Angelo
Scola, la “Secondarietà” definisce la capacità propria di Roma e, in via
successiva, della Chiesa di riconoscersi seconde, secondarie rispetto ad una
cultura precedente ritenuta portatrice di valori non da rinnegare, per
rifondarne in toto di nuovi, ma da
accogliere, comprendere, mediare e ridiffondere, riversandoli nell’alveo della
propria cultura o di una cultura altra con la quale si entri in contatto; essa
appare come una via o, nel caso di Roma, come un acquedotto, teso tra ciò che è
a monte e ciò che è a valle, una sorta di attitudine all’acculturazione in
dimensione alteritaria, in una dinamica continua di acquisizione e
trasmissione. Tale “atteggiamento secondario” non sarebbe, peraltro,
prerogativa esclusiva della Romanità e della Cristianità, ma apparterrebbe
anche ad altre compagini culturali, quali la cultura araba, ad esempio, la
quale ha contribuito a conservare il patrimonio intellettuale di tradizioni
altre e diverse dalla propria, attraverso l’opera imponente dei suoi traduttori,
nella consapevolezza che la Verità sia universale, non confinabile e
acquisibile da chiunque essa provenga, benché estraneo.
La Secondarietà,
dunque, è apertura all’Universale e all’Altro.
L’Universalità o
“cattolicità”, infatti, intesa nel suo etimo greco riconducibile all’aggettivo
katholikos (universale), manifesta la
facies propria della Romanità - così
come ribadito anche dall’illustre studiosa del mondo greco-romano, Marta Sordi,
in più occasioni
- prima ancora di
connettersi ad una visione confessionale cristiana o anche islamica. In fondo
così come Roma, da Augusto in poi, aveva considerato se stessa mandataria di
una missione provvidenziale e universale nei confronti dell’ecumene soggiacente
al suo Impero, così anche la Chiesa o l’Islam, quest’ultimo nelle sue pretese
universalistiche aspiranti a creare il
dār-al-Islām,
rientrano in tale specifica idea di universalità
, direttamente
legata o dia-logata, alla cosiddetta “stranieritudine” o dimensione
alteritaria, itinerante dell’umanità europea. Il contatto con lo straniero è un
archetipo originario nella storia dell’umanità. Nel mondo antico lo
xenos, rappresentava l’Altro nel cui
volto riconoscere se stessi o l’Altro inteso in senso ostile come
hostis, nemico, il cui potenziale
eversivo ed av-verso andava stemperato fino a mutarne l’iniziale
hostilitas in
hospitalitas, cerimoniale posto sotto gli auspici del divino, atto
a rivestire lo straniero di un’aura sacrale, rendendolo
hospes o
philos, amico. Comportarsi
da nemico dello straniero,
echtroxenos,
era considerato dagli antichi una grave colpa, così come si legge nelle
tragedie di Eschilo o Euripide. E, allo
stesso modo, passando dalla letteratura greca a quella neotestamentaria, si
ritrova il tema dello straniero e dell’ospitalità nelle parole pronunciate da
Cristo nel Vangelo di Matteo 25,35: «ero
xenos/hospes
e mi avete accolto» o nel paradossale precetto della montagna che invita ad
amare i propri
echtroi (nemici). Tale
dialettica tragica degli opposti costituisce la base dell’identità europea e il
suo
paradoxon, il prodigio
straordinario, il principio contrario all’opinione comune. Il Cristianesimo, a
partire dal quale l’Europa è chiamata, da più parti, a ripensare le proprie
radici, rappresenta forse la
novitas
di un annuncio che invita a riscoprire la propria radice come indefinito
s-radicamento di Sé, infinita tensione e apertura verso l’Altro, accogliendolo,
ospitandolo in sé come fosse proprio. Optare per una scelta identitaria in
senso forte, in Europa, darebbe origine ad un’opposizione liminare tra ciò che
è europeo e ciò che non lo è, distinguendo nell’Altro il nemico da rifiutare e
combattere perché estraneo, diverso, avverso. Solo concependo l’identità come
non-identità, la radice come s-radicamento o indefinito rinnovamento della
radice stessa, l’Europa potrà dirsi cristiana, nella misura in cui accoglierà
l’Altro e sarà capace di amare il proprio nemico, lasciandolo sussistere come
tale, tendendogli la mano. L’armonia europea nasce proprio da questa dialettica
tra identità-alterità, tra
polemos e
dialogos.
Il dialogo è
la dimensione razionale/relazionale propria della cultura europea e,
come ha sostenuto il sociologo francese Edgar Morin in Pensare l’Europa: «Il genio europeo non consiste solo nella
pluralità e nel cambiamento, ma anche nel dialogo tra le pluralità che produce
il cambiamento».
Il vero valore
d’Europa non risiede nell’uguaglianza ma nella disuguaglianza, nel binomio
tragico-dialettico uno-molti, io-tu, nosce
te ipsum et alium per alium.
In tale
contesto, prosegue Morin, «ciò che fa l’unità della cultura europea non è la
sintesi giudeo-cristiana-greco-romana, è il gioco non solo complementare ma
anche concorrenziale e antagonistico tra queste istanze, ciascuna delle quali
ha la sua logica: si tratta, appunto, della loro
dialogica».
L’identità
europea passa attraverso un ripensamento di sé come “non-identità”, attuabile
mediante una ricomprensione delle sue intuizioni ed esperienze originarie,
molteplici e plurali, uni-distinte. La patria Europa è un’Europa delle patrie e
alla sua «laboriosa creazione» attesero demiurghi dall’eminente spessore
politico, culturale, morale.
I Patres
d’Europa e il Cristianesimo
È forse
anacronistico e singolare designare con l’antico titolo senatorio romano di “
patres”, gli ispiratori ideali e fattivi
dello spirito unitario europeo? Schuman, De Gasperi, Adenauer, Monnet, Dante:
il “Senato d’Europa”. Senza nulla togliere alle riflessioni e agli sforzi
attivi per l’unità d’Europa compiuti da Carlo Sforza e Altiero Spinelli, ciò
che qui preme discutere è la relazione tra Europa e Cristianesimo a livello storico
e politico, verificando la liceità e velleità ecclesiastiche nel tenace,
riecheggiante richiamo alle radici cristiane e, in tal senso, Schuman,
Adenauer, De Gasperi e Monnet, politici e cristiani, considerati, con altri,
padri fondatori dell’Europa, rappresentano una “quinta compagnia”
ad hoc in merito alla questione da
analizzare. Si aggiunge, infatti, quinto, a coronamento ideale dei tempi e
d’azione dei
patres moderni, Dante
Alighieri, concittadino, con essi, in spirito, dell’universale patria Europa. Il
Cristianesimo e il richiamo ad esso come fulcro radicale della poliforme
identità europea, ha sollevato e continua a sollevare polemiche rilevanti e, il
“laicissimo” art. 1-bis del Preambolo dell’UE ne rappresenta l’icastica
evidenza: «
L’Unione si fonda sui valori
del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia,
dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani,
compresi i diritti appartenenti ad una minoranza. Questi valori sono comuni
agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non
discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla
parità tra donne e uomini». Ad esso va a complemento annotata l’“ispirazione”
generale dell’Unione, ratificata nel medesimo Trattato di Lisbona:
«(ISPIRANDOSI) alle eredità
culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, da cui si sono sviluppati i
valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della
libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto». Sfuma,
in nient’altro che un’allusione passibile di soggettive interpretazioni, ogni
esplicito riferimento alle radici greco-romane e, soprattutto, cristiane
dell’Europa, sebbene i principi appena citati siano espressamente esito della
evoluzione-rivoluzione che il Cristianesimo operò nel mondo antico, mutandone
il volto in innovative fattezze valoriali, a cui si aggiunsero precedentemente
e progressivamente in seguito, nel corso dei secoli, altre rivoluzioni, di cui
il trattato ricorda solo gli esiti. Il “rischio” che una cosiddetta “
nominatio Dei”, nel Preambolo della mai
varata Costituzione europea, possa compromettere la dimensione laica della
futura UE, pare e parve, probabilmente anche a Giscard d’Estaing, nel 2002
Presidente della “Convenzione sul futuro dell’Europa”, un inconveniente da
evitare, così come similmente, nel 2007, ha ribadito in altri termini anche il
Cancelliere tedesco Angela Merkel, favorevole ad un riconoscimento formale
della cristianità radicale d’Europa, ma altrettanto fautrice di una sua
esclusione da «un documento di Stato»
,
all’insegna della separazione e indipendenza della sfera di Cesare da quella di
Dio, considerazione, peraltro, evangelicamente già ben chiara secoli or sono.
Un eventuale riferimento alle radici greco-romane-giudeo-cristiane-umanistiche
all’interno di un preambolo costituzionale avrebbe e dovrebbe avere carattere
storico-culturale memoriale non confessionale e, come ha fatto notare Ombretta
Fumagalli Carulli, ordinario di Diritto Canonico all’Università Cattolica del
Sacro Cuore «il riferimento a Dio è inserito nel Preambolo di specifici testi
costituzionali di Stati europei, con maggiore o minore intensità: ad esempio in
Germania vi è il generico riferimento a Dio, in Polonia il riferimento ai
valori di quanti credono in Dio […], in Irlanda l’invocazione al Nome della
Santissima Trinità»
, e
dunque quale potenziale eversivo risiederebbe in una dichiarazione
super partes, di natura memoriale e storica, espressamente privata di
ogni imposizione fideistico-confessionale esclusiva ed escludente altre realtà
religiose? Si obietterà che, tuttavia, l’Italia, e chi qui scrive è cittadina
italiana, non ha nella propria Costituzione alcun riferimento specificamente
confessionale, configurandosi bensì come Stato laico (artt. 8, 19, 20 Cost.,
relativi alla questione religiosa), sebbene riconosca una qualche forma di
privilegio alla religione cattolica (art. 7 Cost.), la quale, al di là
dell’espresso riferimento costituzionale, costituisce per l’Italia una matrice
storico-culturale e religiosa inappellabile. La tanto discussa ed ambita
laicità sembra oggi essersi eretta a baluardo ideologico e costitutivo
dell’identità s-personalizzata europea. Ideologia, peraltro, apparentemente
condivisa in maniera unanime e diffusa, da opporre alla religione come qualcosa
ad essa estraneo e avverso, benché, come ha recentemente fatto notare il
politologo francese Olivier Roy, il concetto di laicità, soggetto attualmente a
strani fenomeni di distorsione interpretativa, non sia anti-religioso, ma sia
in realtà una conseguenza delle antiche guerre di religione combattute in
Europa, sorto a motivo di un mancato consenso dei vari paesi europei in merito
allo spazio da assegnare alla religione. Il fanatismo scatena sì la guerra ma anche
il compromesso pacifico che ne è conseguenza di libertà, seppur come conquista
tradiva e imputabile a scontri tra poteri opposti, indipendenti e mal
conciliati o difficilmente conciliabili.
Il
problema non risiederebbe tanto nel veto più o meno avvalorato di questo o
quell’altro Paese in merito a un trattato, nel far esistere un’Europa
etsi Deus non daretur, ma
nell’introdurre un cardine memoriale, al pari di altri grandi esclusi,
all’interno di una Carta costituzionale, che sia definizione, nel medesimo
tempo, del carattere laico e religioso, occidentale ed orientale dell’Europa. E
se dalla Francia in primis – e da altri - venne, a suo tempo, l’abiura, dalla Francia
poi, si è fatta nuovamente largo l’idea dell’eredità cristiana d’Europa. Il 29
gennaio 2008 Nicolas Sarkozy, al Congresso dell’UMP sull’Europa, s’espresse
così: «Dire che in Europa ci sono delle radici cristiane è semplicemente dare
prova di buon senso. Rinunciare a farlo, significa girare le spalle ad una
realtà storica».
Ed è sempre dalla Francia
del secondo dopoguerra, dal progetto maturato da Robert Schuman, in stretta
collaborazione con «Monsieur Europe», Jean Monnet, che l’Europa, come
auspichiamo intenderla oggi e in futuro, conobbe un inedito processo di
unificazione
, innaturale, ma ispirato
a una visione politica, storica e spirituale lungimirante, riconducibile, a
detta dello stesso Schuman, «alla legge cristiana di una nobile ma umile
fratellanza. E per un paradosso che ci sorprenderebbe se non fossimo cristiani
[…] tendiamo la mano ai nemici di ieri non semplicemente per perdonare, ma per
costruire insieme l’Europa di domani».
La
mano tesa del nemico al nemico che unisce e mantiene distinti Schuman e
Adenauer, Francia e Germania, rendendoli parte della stessa grande visione europea,
non era contemplata nelle concezioni antiche, fino al comandamento nuovo e
paradossale di quell’ebreo di Nazareth che, dall’alto di un monte, insegnò per
primo a tendere la mano ai “fratelli-nemici”.
Il 19 marzo
1958, otto anni dopo, la
Dichiarazione
Schuman, il padre fondatore d’Europa, in occasione dell’elezione a
presidente del primo Parlamento europeo, disse: «Non si tratta di fondere gli
Stati associati, di creare un super Stato. I nostri Stati europei sono una
realtà storica. Sarebbe psicologicamente impossibile farli sparire. La loro
diversità, poi, è una fortuna e non vogliamo né livellarli né renderli uguali.
La politica europea per noi non è assolutamente in contraddizione con l’ideale
patriottico di ciascuno di noi. Tutti i Paesi europei sono stati impregnati
dalla civiltà cristiana. È questa l’anima dell’Europa che occorre far rivivere.
Che questa idea di un’Europa riconciliata, unita e forte, sia ormai una parola
d’ordine per le nuove generazioni che desiderano servire un’umanità finalmente
libera dall’odio e dalla paura e che impari di nuovo, dopo troppe lacerazioni,
la fraternità cristiana. L’Europa ha dato all’umanità il suo pieno compimento.
È lei che deve mostrare una via nuova, invece della schiavitù. Accettando una
pluralità di civiltà in cui ciascuna sia rispettosa delle altre. Non siamo, non
saremo mai negatori della patria, dimentichi dei doveri che abbiamo nei suoi
confronti. Ma al di sopra di ogni patria riusciamo a distinguere sempre più
nettamente che esiste un bene comune, superiore all’interesse nazionale, quel
bene comune nel quale gli interessi individuali dei nostri Paesi si fondono e
si confondono. In un’epoca in cui tutto è in fermento, bisogna saper osare. È
meglio provare che rassegnarsi, la ricerca della perfezione è una scusa
meschina per non agire».
Il
richiamo al Bene comune, alla fratellanza universale, al perdono e
all’accoglienza del nemico sono temi cristiani di grande attualità che inducono
a una riflessione più ampia sulla questione dei cattolici in politica, il cui
impegno, ieri come oggi, anche sul tema dell’Europa non deve indurre ad
accelerazioni in senso necessariamente confessionale. In tal direzione va letta
l’opera europeistica di Alcide De Gasperi. Ricordare la sua figura, infatti,
studiarne l’attività vuol dire – come ha sottolineato Gabriele De Rosa –
«confrontarsi con alcuni nodi cruciali della storia del secolo scorso: dalle
vicende legate alla dissoluzione dell’Impero asburgico, alla crisi dello Stato
liberale e all’avvento del fascismo; dalla tragedia della II guerra mondiale
alla difficile opera di ricostruzione e di avvio della modernizzazione
economica, politica e istituzionale del nostro paese, fino al progetto di una
casa comune europea».
L’ideale che supremo s’impose nelle menti sognanti di europei
ante litteram come De Gasperi, Schuman,
Monnet, Adenauer, fu l’edificazione di una comunità internazionale che
s’ispirasse ai valori di democrazia, pace, convivenza fra popoli e culture,
nell’iniziativa di risollevare a nuova alba l’Europa scossa e devastata da
antagonismi e guerre, forti della consapevolezza di un «comune retaggio
europeo», rintracciato da De Gasperi in «quella morale unitaria che esalta la
figura e la responsabilità della persona umana col suo fermento di fraternità
evangelica, col suo culto del diritto ereditato dagli antichi, col suo culto
della bellezza affinatosi attraverso i secoli, con la sua volontà di verità e
di giustizia acuita da una esperienza millenaria».
Nelle
parole di De Gasperi c’è l’Europa di Atene e Roma, l’Europa della Chiesa e forse
anche già del minareto, l’Europa della Rivoluzione Francese e Americana,
l’Europa dei due polmoni di Giovanni Paolo II, l’Europa che i Padri fondatori
avevano visto e progettato, senza che nessuno oggi riesca a sognare di nuovo la
stessa visione, cercando di realizzarla fattivamente. Non se ne dolgano i
“moderni” se, tra i
patres d’Europa,
posto d’onore attribuisco anche a Dante Alighieri,
logos e
theo-logos dell’
humanitas, che in un’Europa, alla sua
epoca, forse solo
in mente Dei, seppe
concepirne, tuttavia,
l’idea, la
visione, anch’egli, nella descrizione degli spiriti magni del Limbo, nella
teoria dei due soli, di spada e pastorale, nella sintesi poetica e profetica d’Occidente
e Oriente, nella tensione a cose che «albeggiano nel grembo del futuro», così
come ricordato da papa Paolo VI nella lettera apostolica
Altissimi cantus: «il Poema di Dante è universale: nella sua
immensa grandezza, abbraccia cielo e terra, eternità e tempo, i misteri di Dio
e le vicende degli uomini, la dottrina sacra e le discipline profane, la
scienza attinta dalla Rivelazione divina e quella attinta dal lume della
ragione, i dati dell’esperienza personale e le memorie della storia, l'età sua
e le antichità greco-romane, mentre ben si può dire che del Medioevo è il
monumento più rappresentativo. Nel suo contenuto tesoreggia la sapienza
orientale, il
logos greco, la civiltà romana, e, in sintesi, il dogma e
i precetti della legge del Cristianesimo nella elaborazione dei suoi dottori.
Aristotelico nella concezione filosofica, platonico nella tendenza all’ideale,
agostiniano nella concezione della storia, nella teologia è fedele seguace di
San Tommaso d'Aquino, tanto che
la Divina Commedia è, fra l’altro, in frammenti,
quasi lo specchio poetico della Somma del Dottore Angelico. Che se ciò è ben
vero nelle linee generali, è altrettanto
vero però che Dante è aperto a profondi influssi di sant'Agostino, di San
Bernardo, de’ Vittorini, di San Bonaventura, e non è scevro di qualche influsso
apocalittico dell'Abate Gioacchino da Fiore, poiché suole protendersi a cose
che albeggiano o che, non ancora nate, sono in grembo del futuro».
Dante è stato forse il primo
civis
d’Europa? Se non nei fatti, lo fu nello spirito e «pur essendo un italiano e un
uomo di parte, (fu) prima di tutto un europeo»
, la
sua cultura è il patrimonio che stentiamo a riacquisire e a cui è dovere primo
attingere. Dante non necessita di una ratifica costituzionale per concepire,
cum-capere, afferrare insieme la
sub-stantia d’Europa, la metonimia delle
sue tre altezze: Golgota, Campidoglio, Acropoli; Grecia, Roma, Cristo o, Atene,
Roma, Gerusalemme, che dir si voglia. Egli non inabita
una nazione, è la cultura d’Europa che troneggia nei suoi versi, le
cui radici nascono e s’impiantano nell’
ecumene
“cattolica-universale”. Ciò che accomuna le azioni e le idee di quello che ho
definito il “Senato d’Europa” è un’ideale trascendente, una missione o diaconia
a carattere
katholikos-universale, un
servizio al servizio del Bene comune: l’Europa politica e spirituale, non
confessionale, l’Europa dell’
humanitas
e del
dialogos.
Conclusione
L’Europa
è un’idea, una visione stentatamente esperibile, faticosamente tangibile se non
nella misura stessa del
ponos, la
fatica della
visio e della sua concreta
realizzazione fattiva. Come conciliare ciò che, discorde, nelle menti albeggia
già in concordia? Il fine ultimo di quanti presiedono, con le loro azioni ed
intenzioni, alla creazione dell’Europa unita risiede nel mantenimento della
varietas e della
concordia che la sublima. Il rischio paradossale di un’
unitas multiplex che non sia rete
interculturale, dialogica e mediante, bensì imposizione riduttiva del
molteplice non ad unione ma
ad Unum,
s’insinua sempre ratto e sotterraneo nelle pieghe con-fuse del costituendo
Esse europeo, gettando l’idea d’Europa
in scenari babelici. «La fatica di questa
theoria
[…] consisterà, dunque, nell’
armonizzare,
senza ridurle violentemente a Uno, le diverse figure, le diverse
isole, tutte ‘salve’ nell’individualità
del proprio carattere, ma tutte colte nella comune ricerca, nel comune amore (
philia) per quel Nome o per quella
Patria che a tutte manca»
:
l’Europa. Che cos’è l’Europa? La sua dinamica attuale la sospinge ad assumer
forma di progetto culturale, non più limitatamente economico-politico, e
soltanto comprendendo che essa è un concetto la cui
dynnamis attiva risiede su fondamenti spirituali diversi e
discordi, necessitanti di un’armonia logica, dia-logica, che tutti li riconosca
identici e distinti senza nessuno disconoscerne o annullarne, sarà possibile
dar ragione della sua richiesta d’identità, strappandola all’oblio di sé, al
nichilismo e al relativismo. La sua originalità risiede nella molteplicità, «
in varietate concordia», essa è
continens accogliente civiltà, da
Oriente ad Occidente, e chi, meglio di quei Padri fondatori francesi, tedeschi,
italiani, uomini di frontiera, capaci di leggere il
limes non come confine di separazione ma di unione (
cum-finis), poteva concepire e vedere,
prima ch’esistesse, quell’Europa unita e diversa, che gli occhi europei, oggi, non
riescono ancora a contemplare? Atene, Roma, Gerusalemme rappresentano la
“patria trinitaria” dell’
esse
europeo, la madrepatria universale della grande
familia humana europea, ed imponendo con volontà immemore, da più
parti, la
damnatio memoriae dei suoi tre fondamenti
spirituali, storici e filosofici, o peggio, tentando di abolire la
varietas nell’affannosa mostruosa
creazione dell’
Unum indistinto, non
si otterrà che una Babele confusa e diffusa di nomi e aspetti dati a ciò che,
priva della sua consapevole essenza, non avrà forza d’esistere.
In varietate concordia: il motto
d’Europa le ha dato nome all’anima, spetta ora ai figli d’Europa sentirsi
fratelli di sangue (
kasignetoi), divenire
coscienti d’essere europei, uniti seppur divisi, radicati nel perenne
s-radicamento, dall’identità non-identitaria e, in virtù di ciò, liberi di
aprirsi all’Altro, come Roma, come Cristo: è questo l’
ethos d’Europa, il suo
telos,
che le derivano dalla memoria di un passato comune. Il fondamento radicale
della
nova humanitas europea precede
e transita al di là dell’unificazione economico-politica, che ne è solo la
veste esteriore. Il Terzo millennio s’appressa ai bastioni d’Europa e la chiama
a darsi un’anima. Scrisse T.S. Eliot: «Il mondo occidentale ha la sua unità, in
questa eredità, nel Cristianesimo e nelle antiche civiltà della Grecia, di Roma
e d’Israele, alle quali, attraverso duemila anni di Cristianesimo, noi
riconduciamo la nostra origine. […] Se noi disperdiamo o gettiamo via il nostro
comune patrimonio, allora tutte le organizzazioni e i progetti delle menti più
ingegnose non ci gioveranno, né contribuiranno ad unirci».