Alle origini:
Roma,
l’Europa, la Chiesa
(di Laura Balestra)
Questo breve saggio tenta di
delineare una visione storico-filosofica circa la definizione del concetto di
identità e di Europa, quest’ultima intesa come una sorta di “sinecismo o sincretismo”
di nozioni o entità variabili che, da una forma
mentis antica tracciano soluzioni nuove per il futuro, riattualizzabili
dall’antichità classica greca e romana e dall’ebraismo.
Ponendo il concetto di Europa,
inteso in senso filosofico e spirituale, tra Roma e la Chiesa si manifesta la
volontà di individuarne il comune denominatore che affratelli e definisca il proprium di ognuna di esse. Stabilire
l’identità di qualcosa pone sempre dinanzi a un paradosso, che definisce il Sé
identitario solo distinguendolo in relazione al suo non-essere o al suo
essere-altro-da-sé. Il paradosso risiede proprio nella tensione esistente tra
forze discordi unite in concordia.
Qual è l’identità d’Europa? Cos’è
l’Europa filosoficamente intesa? Cosa Roma? E la Chiesa ?
1. Rémi Brague e la “voie romaine”
L’identità dell’Europa non è né greca, né cristiana,
né araba, né germanica. La sua unità è Roma, ma solo nel senso che essere
europei significa essere come i Romani, i quali con suprema umiltà si sono
adattati ad essere una struttura di trasmissione culturale, accettando di porsi
dopo i Greci e dopo gli Ebrei, rassegnandosi ad occupare solo il secondo posto:
che vuol dire romanità? Significa secondarietà,
attitudine del ricevere e del trasmettere, del sapersi se stessi riconoscendo
la propria identità nella tensione tra un classicismo da assimilare e una
barbarie (interiore) da sottomettere: significa poter accedere a ciò che è
proprio soltanto attraverso ciò che è a noi straniero. La romanità così intesa
– come Secondarietà – non è di per sé una identità, ma è la disponibilità a
costruirla, è l’attitudine che rende capaci – come dice Kant – di “pensarci al
posto di un altro” di essere cattolici nel senso non confessionale, ma greco
del termine: cioè “universali”[1]
È riassunta qui, in breve,
attraverso le parole stesse dell’autore, Rémi Brague, filosofo e studioso del
mondo arabo, greco, ebraico e medievale all’Università di Parigi e Monaco, una
delle teorie più straordinarie e penetranti sul modus operandi dell’impero romano e, in seguito, del Cristianesimo:
la teoria della secondarietà o “voie romaine”, contenuta nel saggio Il
futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa.
Cosa si intende con il concetto
di Romanitas quale substratum fondativo del Cristianesimo e
dell’Europa stessa? Lungo quale cammino conduce la “via romana”? Perché Roma è “seconda”
rispetto ai popoli di cui deteneva il dominio e in che senso lo era? E,
successivamente, quale riverbero significativo e paradigmatico essa andò a riflettere
sulla susseguente nascente Ecclesia? “Romanità”
è, per Brague, «la situazione di secondarietà rispetto a una cultura
precedente».[2]
Ogni impero tende all’espansione e al controllo assoluto in campo militare,
politico e religioso dei territori assoggettati e, seppure Roma non si
sottraeva a questo standard operativo, ciò che la svincola da giudizi negativi
circa il suo eventuale dominio dispotico fra le colonne d’Ercole e la Parthia ,
è la relazione organica e secondaria stabilita fra il centro e la periferia.
Scrisse il poeta latino Orazio all’indomani della conquista romana dell’Achaia: «Graecia capta ferum victorem cepit».[3]
La Grecia conquistata conquistò il fiero vincitore. Che vincitore è un
conquistatore che si lascia conquistare dalla sua conquista? Un saggio
vincitore di certo, che seppe riconoscere con umiltà la propria inferiorità,
rendendosi disponibile alla ricezione di quanto di buono provenisse dalle altre
culture con cui entrava in contatto. L’impero di Roma era un impero globale,
senza connotazioni governative ascrivibili a uno Stato nazionale, a una
monarchia assoluta, a una dittatura o a un regime totalitario. Poteva essere
tutto questo, ma era anche altro. Un impero di sincretismi in cui spagnoli,
dalmati, illirici, siriaci, africani occuparono il trono di Augusto, senza
distinzioni di razze, etnie, religione. Oggi sarebbe forse impensabile, o
desterebbe quanto meno perplessità, magari disorientamento, almeno nello Stato
italiano, che un civis d’Europa, non
italiano, o un extra-comunitario di cittadinanza italiana, diventi Presidente
del Consiglio. Non così per la presidenza della Comunità europea, non così per
il soglio pontificio. La politica europea non è qui in discussione, interessa
maggiormente osservare in che modo l’“eredità secondaria romana” costituì suo
epigono la Chiesa. Roma
amministrava differenze, alterità e, nel riconoscersi fiera vincitrice
conquistata, essa imponeva sì le sue leggi, ma era aperta alla ricezione,
all’assimilazione e alla trasmissione di una cultura non propria, Altra, rispetto ad un’identità che non
si costituiva se non nel processo indefinito di diffusione di sé, ricezione e
assimilazione dell’altro, trasmissione del nuovo, di quel sincretismo organico
creatosi. In tal senso Roma è molto diversa dalla Grecia, dalla quale pure si
sentì capta. L’identità greca si
delinea potentemente nel corso delle guerre persiane, quando l’Altro, il
persiano, disvelò alle poleis la loro
reale essenza: l’eleutheria. L’alieno,
l’estraneo, ciò che è Altro rispetto a un Sé definito o in via di definizione,
in genere crea turbamento ed è fonte di spavento, in quanto in esso «un tratto
familiare viene riconosciuto per
negationem».[4] L’Altro è ciò che minaccia
la totalità della nostra identità, perché nella relazione negativa che stabilisce,
dimostra la parzialità, la non-autonomia, la dipendenza di ciò che, prima del
contatto alteritario, era ritenuto assoluto e totalizzante: l’Io sono. La differenziazione è dunque la prima categoria declinante la
definizione del Sé identitario, così come sostenne Federico Chabod nel saggio Storia dell’idea di Europa laddove, nel
rintracciare l’origo prima e la
genesi della “coscienza d’essere europei” da parte dei nostri avi,
ascrisse alla contrapposizione operata dal pensiero greco fra “Europa” e “Asia”
nel corso delle guerre persiane e nell’età di Alessandro Magno, il canone primo
d’interpretazione coscienziale di quell’antica “Europa” libera da ogni asservito
dispotismo asiatico.[5] E, in tal senso, le
successive relazioni oppositive fra romano-barbaro, pagano-cristiano
costituirono le vie di un processo identificativo e definitivo di una realtà in
divenire. In una situazione di reciprocità tra l’identità e l’alterità può
tuttavia emergere anche un fattore positivo che, nella fattispecie, fu raccolto
e custodito da Roma, la quale in una dimensione culturale in fieri, quale era quella di un popolo di pastori, guerrieri,
ingegneri sanza lettere, non accusò
timore di alcun genere nel suo rendersi victa
e victrix. I Romani seppero
accogliere l’alterità, depotenziandola, per il tramite dell’hospitalitas anticamente intesa, della
sua matrice ostile e avversa in quanto di-versa. Le componenti straniere,
ospitate e diminuite nella loro hostilitas-diversitas,
manifestavano i loro benefici effetti, la loro philia a coloro che, victores
philoxenoi, le avevano accolte nell’alveo della secondarietà sapiente. Dominare
lasciandosi dominare, accrescere la propria potenza non celando le proprie
debolezze, questo sperimentò Roma e, successivamente, la Chiesa stessa raccolse la
secondarietà della Romanitas,
“battezzando” quanto del mondo antico a lei precedente fosse stato utile a
realizzare la facies universale,
cattolica, che ne costituisce tuttora l’identità.[6]
Come sostiene Brague, al pari dell’Impero romano, la Chiesa conservò il meglio
della cultura con cui entrò in contatto.
Pensiamo al diritto, alla
filosofia, alla letteratura antica, non solo romana, ma anche ebraica e greca,
che sono alla base dello sviluppo ideologico del Cristianesimo, che le
offrirono quell’integumentum deittico
intuibile al mondo nel quale si stava presentando e diffondendo: «la Chiesa cattolica ha
funzionato storicamente come luogo di conservazione del paganesimo nella
cultura europea».[7]
Se, dunque, per “romanità” si intende la capacità di farsi secondi riconoscendo la superiorità culturale di chi precede, una superiorità da accogliere, non distruggere o soffocare, va da sé che la successiva cattolicità della Chiesa non poté che strutturarsi su basi secondarie. Secondarietà dell’umano al divino, secondarietà della terra al cielo, secondarietà del temporale allo spirituale, secondarietà del tempo all’eterno. Forse anche secondarietà ideale dell’Ecclesia all’Imperium, intesi rispettivamente come categorie spirituali? Se la cronologia e l’impianto della Chiesa sulle vestigia di Roma manifestano perentorie la loro realtà, le teorie teocratiche del Medioevo fecero poi il resto.
Se, dunque, per “romanità” si intende la capacità di farsi secondi riconoscendo la superiorità culturale di chi precede, una superiorità da accogliere, non distruggere o soffocare, va da sé che la successiva cattolicità della Chiesa non poté che strutturarsi su basi secondarie. Secondarietà dell’umano al divino, secondarietà della terra al cielo, secondarietà del temporale allo spirituale, secondarietà del tempo all’eterno. Forse anche secondarietà ideale dell’Ecclesia all’Imperium, intesi rispettivamente come categorie spirituali? Se la cronologia e l’impianto della Chiesa sulle vestigia di Roma manifestano perentorie la loro realtà, le teorie teocratiche del Medioevo fecero poi il resto.
2. Respublica
Christiana o Respublica Romana?
La parola d’ordine che campeggia
sui vessilli spirituali delle genti d’Europa è: “coscienza d’essere europei”.
Ma entro quali fondamenti si definisce una cosciente percezione d’essere ciò
che si è? Considerati gli sviluppi “politicamente
corretti” della redazione della Costituzione Europea, va da sé che, al fine di
non urtare la sensibilità “spirituale” o la fede di nessuno si possa comunque
rintracciare, una comune identità storico-culturale, se non nella Respublica Christiana[8],
in quell’ormai innocuo Impero romano, che da un capo all’altro dell’allora
mondo conosciuto aveva reso concordi popoli discordi. Roma, dall’VIII secolo
a.C. fino alla caduta dell’Impero nel 476 d.C., andando ad estendere il suo
dominio progressivamente dall’Italia all’Europa, unì sotto un unico sistema
governativo popoli di tradizioni diverse. Dopo la fine della Seconda guerra
punica e le vittorie sulle grandi monarchie ellenistiche, l’Urbs sviluppò fattivamente il progetto
di un impero ecumenico del quale essa fosse garante e sovrintendente in termini
di unità.[9] La compattezza e
l’uniformità raggiunte in ambito territoriale, andavano, tuttavia, ben oltre la
sfera politica ed economica, contribuendo a creare una koinè culturale che trovava la sua massima concretizzazione
nell’adozione di un unico diritto, di un’unica lingua, di un’unica espressione
artistica ed architettonica e di un’unica religione per tutto l’Impero. Roma,
come già comprese Dante, ebbe ab aeterno
la vocazione all’impero universale, katholikos,
provvidenziale.[10]
L’Europa di oggi, al di là delle
attuali ed evidenti diversità politiche, culturali, economiche e linguistiche,
quindi, potrebbe continuamente riscoprire la sua origine fondativa in un
passato “laico” rappresentato da Roma. Il fine ultimo sarebbe quello di
favorire la comprensione di come ogni particolarismo attuale sia conseguenza
del riemergere dei singoli sostrati culturali di ogni nazione rimasti latenti a
seguito del processo di romanizzazione, precursore, peraltro, del successivo
fenomeno di “cristianizzazione”. E se circa quest’ultima affermazione la
politica e il diritto invitano a tacere per evitar polemiche, la filosofia
tuttavia può liberamente esprimersi in pensieri e parole, in concetti e teorie,
ri-pensando l’Europa della “secondarietà romana” forse o l’Europa “società
degli spiriti e grande repubblica di Stati” di Voltaire.[11]
La questione è complessa, molto
complessa. L’Europa è unità politica, amministrativa, economica, ma al di sopra
di tutto, è unità spirituale, non geografica. La spiritualità s-confinata di quelle unioni
che Greci e Romani tanto amavano concordare dal nuovo all’antico, rintracciando
sottili linee rosse originarie e originanti le tradizioni di popoli così
distanti tra loro per quanto massimamente vicini, isole diverse di un comune
immenso mare che tutte le divide e affratella in un medesimo, universale arcipelago.[12] L’Impero romanizzò
l’Oriente e questo, a sua volta, ellenizzò ed orientalizzò Roma e l’Occidente,
fondendo insieme il proprio e l’altrui a che si costituisse l’unicum, il Sé, l’Identità. Simile traditio, intesa come meccanismo o via
di trasmissione dinamica, in perenne tensione tra l’acquisire, l’essere e il
tramandare, costituisce da sempre l’ego
sum dei popoli antichi: Ebrei, Greci, Romani e Cristiani, intesi questi
ultimi come popolo in senso lato, popolo di Dio.
«Il cristianesimo non ha sentito
il bisogno di rifare daccapo ciò che era già ben fatto nel mondo pagano, come
il diritto o le istituzioni politiche. […] si è sovrapposto a ciò che esisteva
già», innestandosi «su una civiltà già organizzata secondo leggi proprie».[13] Se la questione dell’eredità
romana della Chiesa viene posta in termini di assimilazione, cristianamente
rivisitata, dei modelli pagani chiediamoci cosa fosse cambiato dal memento mori al sic transit gloria mundi.[14]
Cos’era il vescovo di Roma se non il successore dell’imperator? Un nuovo Signore sopraggiunto nelle dissimulate, antiche
vesti dell’antico dominatore. E il suo regno? Nient’altro che una sovrana
autorità legittimata da una donazione illegittima[15], nonché storicamente
falsa, capace di resuscitare un nuovo dominio sulle ceneri di un impero svanito
e sopravvissuto lontano, nelle terre d’Oriente. Un nuovo pastore di genti
chiamato a governare uomini e anime, popoli e tribù disperse, privo di armi e
di eserciti, inerme oppositore alla ferocia straniera delle stirpi d’Oltralpe.
Geniale profeta della koinè
spirituale e politica, il vescovo di Roma seppe sottomettere ed alleare senza
sangue, con lo spirito: la conversione dei barbari. Fedeli. Al suo servizio.
Roma di nuovo al centro del potere. E quando al vetusto trionfalismo di un
impero in crisi subentrò un senso incombente di dissoluzione e morte,
all’attivismo delle arcaiche ideologie politiche successe una torbida passività
nei confronti dei grandi e drammatici eventi della storia. Fu in quell’istante
che la Roma
imperiale venne trasformata, attraverso la Croce e la Chiesa , nella celeste Roma aeterna, degna patria di Cristo e dell’umanità. Il senso
preparatorio e provvidenziale del paganesimo e dell’impero divenne prodromo
della Provvidenza cristiana. La storicità del nuovo dio, del Dio vero
predilesse la propria incarnazione nella pienezza di quel tempo scandito da
consoli e imperatori. Dio decise di far incarnare suo Figlio nell’Impero e
dell’Impero la Chiesa
acquisì l’Esse, la propensione alla
cattolicità lato sensu, lo spirito
universale di Roma antica. La Christianitas
si erge e si edifica sulla Romanitas,
agli eroi classici fanno seguito i martiri, ai templa le cattedrali e la vittoriosa gloria dell’impero permane, ma
mutata, grazie al sangue delle legioni cristiane.
3. Il viaggio, lo straniero, la radice
La dimensione itinerante, la “stranieritudine”,
l’appartenenza salda alle origini possono forse costituire le declinazioni
dell’anima antica e dello spirito moderno? Consideriamo i grandi paradigmi
filosofico-cognitivi dell’Occidente incarnati in Enea, Abramo e Ulisse, ebbene,
ognuno di essi, nella sua tipicità, è archetipo originario e originante l’anima
propria d’Europa. Il pius Enea,
profugo da Troia all’Italia per volere del Fato, il padre della fede e il polymetis precursore della Grecità quale
madre della filosofia sono a fondamento dell’identità razionale e spirituale
dell’Occidente. L’amor patrio, l’amore per la conoscenza, l’amore per Dio
fondano il contenuto proprio della missione dei tre. Il Fato, gli dei e Dio
sospingono i moti degli eroi e nel viaggio verso il Lazio o Canaan o Itaca, la
metafora itinerante dell’uomo quaerens
conduce e sospinge lungo la via che dispiega la conoscenza di sé: gnothi seauton. Enea, eroe virtuoso
della pietas, vir ante litteram, che cerca patria ai Penati di Troia è emblema
del dovere e del rispetto verso gli dei e verso gli uomini; Ulisse, re della
terra di nessuno, sospinto al largo dal non
domato spirito, vivrà su di sé l’identità di molti e nessuno, il peso e
l’onore d’essere xenos in terre
lontane e straniero mendicante in patria. Abramo, patriarca di tre fedi, intraprende
consapevolmente l’odòs della
conoscenza spirituale, che lo porterà all’abbandono dell’idolatria per
abbracciare la fede in un solo Dio
vero. Egli conquisterà più di una terra, più di un popolo, più di una legge,
conoscerà se stesso in Dio; Ulisse si troverà a intraprendere la via della
conoscenza umana in virtù di un capriccio divino, ma attraverso la mètis, come qualcuno ha scritto, riuscirà
a mutare il suo destino di condanna in un privilegio di conoscenza. La
conseguenza di tutte le sorti è, in sostanza, quella di divenire viandanti e
stranieri. Abramo si metterà in cammino sollecitato da una voce divina che lo
inviterà ad abbandonare se stesso e la sua identità per farsi altro da ciò che
è, altro da sé in una terra promessa che sarà patria dell’universale umano e
non confine del solipsismo nazionalista di Israele[16]; Ulisse intraprenderà il nostos indefinito che mai approderà a
meta ultima, ma sempre si costituirà come una deriva “per seguir virtute e canoscenza” (Dante, Inf. XXVI, v.120)[17]. Il mare azzurro sempre lo
sospingerà oltre e mai terra alcuna calcherà stabilmente il piede suo, sicché sempre
un’ultima onda lo sommoverà ad altri lidi e mari altri.[18] Nel farsi straniero
Abramo diviene il “padre dei popoli”, il viandante nel deserto che conquisterà
per tutta l’umanità la dignità di una relazione etica con la terra; Enea, l’inquieto
fuggiasco virgiliano, fa del suo “male di vivere”, del suo essere peregrino virtus, stemma di humanitas ideale, ricerca esistenziale del bello e del buono, del
valore e del costume, della pietà e dell’onore che a meta ultima e
provvidenziale approda a fondare l’eterno, Roma; Ulisse, nel suo peregrinare,
vivrà le vite di molti, vivrà esistenze altre, ma mai Un ’esistenza propria e identitaria. Ulisse
tornerà ad Itaca da straniero, sotto le spoglie di un mendicante e
riconquisterà il suo status di basilèus, ma è la condizione di errante,
di viandante straniero a costituire il senso del suo essere umano, del suo
essere Ulisse, il paradigma cognitivo razionale dell’Occidente. Allo stesso
modo quando in Gn 23, 4 Abramo afferma: “sono Straniero e abito (risiedo) con
voi”, connota il proprio essere come un essere residente e straniero. Deve
risiedere per dar luogo all’altro e allo stesso tempo deve essere straniero a
se stesso per conoscersi e mostrare il proprio volto all’altro. Abramo è pàroikos kai parepìdemos[19] e la terra che abita è paroikia, è il luogo in cui si peregrina
come ospiti. Il viaggio e la condizione di straniero sono le dimensioni
fondative dell’Occidente: solo il viandante straniero ha la dignità di
risiedere nella terra dell’universale umano.[20] Se il viaggio e la “stranieritudine”
stabiliscono una segreta corrispondenza o philia
fatale fra il “pietoso” eroe, il padre dell’Alleanza e l’ondivago re senza
meta, ciò che li separa sostanzialmente è la loro relazione ad un genos, una stirpe che possano chiamare propria. Se Ulisse vaga fra l’onde di
mari e di terre, di popoli e di immortali, il suo non-dove, la sua meta non-ultima
resta costante in Itaca: la reggia assediata, il tripudio turpe dei pretendenti,
il figlio erede e l’operosa Penelope. La ricerca di se stesso permane in Ulisse
salda alla propria stirpe, che intona richiami amorosi all’eroe, l’eroe del nostos, del ritorno a là onde egli era
venuto. Al genos antico mai
abbandonato, si oppone una radice diversa che lacera se stessa e si divelle
dalla terra patria per fondare una nazione altra,
in cui di nuovo si nasca di-versi. Canaan come Roma, Abramo
come Enea, pellegrini per volere del divino. Il Dio di Abramo diede al suo
popolo una terra che non avevano lavorato, abitazioni in città che non avevano
costruito e frutti di vigne e oliveti che non avevano piantato.[21] La radice nuova di
Israele fa esperienza della propria identità come straniera, non-autoctona,
secondaria. Similmente Enea e l’Impero. Le radici si s-radicano e rifondano
perennemente novae, alterae, dall’antico al nuovo, dal nuovo
all’antico. Ebrei, Greci, Romani, Troiani, Cristiani: «la questione
dell’identità culturale dell’Europa […] è indissolubilmente legata alla
questione del rapporto dell’Europa con le altre civiltà, precedenti e/o esterne
a essa. Per l’Europa, il rapporto con sé passa attraverso il rapporto con
l’altro».[22]
4. Le radici dell’Occidente
L’Europa è un continente, continens, «un contenitore aperto
all’universale»[23],
essa non ha una cultura ma è una
cultura.
Le sue radici? Risponde Brague:
Che immagine strana... Perché considerarsi come una
pianta? In gergo francese, “piantarsi” vuol dire sbagliarsi, o fare un errore…
Se si vogliono a ogni costo delle radici, allora diciamo con Platone: noi siamo
degli alberi piantati al contrario, le nostre radici non sono sulla terra, ma
in cielo. Noi siamo radicati in ciò che, come il cielo, non si può afferrare,
sfugge a ogni possesso. Non si possono piantare bandiere su una nuvola. E noi
siamo anche animali mobili. Il cristianesimo non è riservato agli europei. È
missionario. Crede che ogni uomo abbia il diritto di conoscere il messaggio
cristiano, che ogni uomo meriti di diventare cristiano.[24]
Senza radici, dunque, in senso
missionario o epigenetico, come hanno sostenuto J.-C. Passeron e P. Veyne.[25] Lettura prediletta, se
così possiamo definirla, del Cardinal Angelo Scola, l’opera di Rémi Brague, con
la sua teoria della secondarietà romana e cristiana, ha offerto una pluralità
di riflessioni che, dall’antico al moderno, procedono nell’unica direzione
dell’avvenire.
Nelle opere Il valore dell’uomo e Una nuova laicità Scola cita il pensiero
di Brague, mentre riflette sui concetti di identità e unità dell’Europa.
L’Europa, questo “meticciato di civiltà e culture”, come l’ha definita il
patriarca di Venezia, ha le sue radici tanto in Occidente quanto in Oriente,
anzi forse sarebbe storicamente più corretto invertire la primazialità dei
termini e rintracciare i germogli culturali dell’Europa in Oriente e
successivamente, in continuità ideale, trapiantati in Occidente per essere
ricreati, rifondati dall’antico sul nuovo e dal nuovo sopra l’antico. «[…] oggi
l’Europa ha smarrito il senso della secondarietà che a me piace rappresentare –
dice Scola - con la figura di Enea quando lascia Troia in fiamme portando sulle
spalle il padre Anchise e tenendo per mano il figlioletto Julo». Cara è
quest’immagine virgiliana al cardinale, il quale la considera icona figurativa
di una renovatio. «Enea prende
l’antico e lo innesta sul nuovo», mediante una consecutio ininterrotta di generazioni: Anchise, il passato; Enea, il
presente; Julo, il futuro. Una triade temporale, una “trinità” fondativa, a cui
l’arte ha dato aspetto e volto, basti pensare all’Enea in fuga del Barocci o al
gruppo scultoreo del Bernini, in cui il principe troiano fuggitivo verso non-dove, sorregge virtuoso il mos maiorum e i Penati di Anchise, la
cui memoria è rivolta al passato. Fisso nel vuoto, senz’altra direzione che la
presente, lo sguardo di Enea procede indistinto. Tre sguardi di-versi quelli
del gruppo scultoreo, in cui l’unico timido accenno futuro è dato dalla
fiammella tra le mani del piccolo Julo, speranza accesa su ciò che sarà. Enea,
si sa, fuggiva da Troia, quell’odierna Truva di Turchia (sulle colline di
Hissarlik?), in Oriente, e a lui Roma demandò la fortuna e la gloria dei suoi
Augusti e del suo Impero. Viene da Oriente dunque la radice dell’Urbe? Sì. E se
con la mente corriamo nei secoli fino a Paolo, apostolo delle genti, sarebbe
lecito domandarci: ma il Cristianesimo è d’Oriente o d’Occidente? Ex oriente
viene la Parola
che, tuttavia, universale, si fa seconda e si fonde all’Impero di Roma ad occidentem. Un Impero già in sé katholikos prima di Cristo e che al
cattolicesimo cristiano dà sostrato e volto. Che senso ha un’affermazione di
tal genere? Chiarisco i termini del discorso, ringraziando una illustre
studiosa, la professoressa Marta Sordi, per aver saggiamente illuminato i
percorsi conoscitivi del sapere storico, relativo al mondo classico, lungo
quella miriade di affermazioni distorte, omissive e poco chiare, se non
confuse, che caoticamente inebriano pulpiti e menti. Con una limpidezza
disarmante e tecnicamente indiscutibile, in un’intervista pubblicata su Avvenire il 30 ottobre 2004, in quel turbinoso
tumulto di dibattiti e recriminazioni su laicismo o cristianità dell’Europa,
alla domanda “Radici romane o radici cristiane?”, la Sordi diede forse l’unica
risposta storicamente e spiritualmente corretta: «Non c’è contraddizione: c’è
innesto e reciproca, cordiale integrazione. Si ricordi che Roma è già
“cattolica” prima di diventare cristiana […] Nel senso letterale: “cattolico”
vuol dire universale, e l’antica Roma
fu proprio questo, l’integrazione di ogni popolo entro il diritto universale.
[…] Roma, dice Sallustio, fa di popoli diversi per sangue, lingua e costumi una
concordis civitas».[26] Nell’affrontare l’annoso
problema dell’Europa e dei suoi rapporti con il Cristianesimo, anche Scola ha
proposto una riflessione non dissimile, tratta da uno stralcio del pensiero di
T.S. Eliot su eredità culturale e destino d’Europa: «Il mondo occidentale ha la
sua unità in questa eredità, nel Cristianesimo e nelle antiche civiltà della
Grecia, di Roma e d’Israele, alle quali, attraverso duemila anni di
Cristianesimo, noi riconduciamo la nostra origine. […] Se noi disperdiamo o
gettiamo via il nostro comune patrimonio, allora tutte le organizzazioni e i
progetti delle menti più ingegnose non ci gioveranno, né contribuiranno ad
unirci». L’idea di Eliot, che vede il presente come memoria attuale del
passato, in cui vita può esserci perché c’è morte e in cui Dante può esistere
perché a lui prevennero Omero, Enea, Virgilio, Paolo non fa altro che inventar
la novità futura e gettar lume alla memoria già essente. Ripercorriamo per un
istante nella memoria quella modesta recusatio
dantesca, ritrosia artificiosa del sommo poeta dinanzi alla missione sua, che
rimembra con timore l’inadeguatezza di chi eroe non è eppure viene vocato a
sostenere un cammino secondario, epigonale a eminenti figure a lui precedenti:
Io non Enëa, io non Paulo sono[27]
Apparecchiato a sostener la
guerra del cammino e della pietate, Dante, con reverenzial timore e
senso di inadeguatezza propone al suo maestro una titubante e restia volontà o
possibilità d’esser viaggiatore nei regni eterni come il parente di Silvio agli Inferi e come il vas d’elezione nei Cieli.
Eppure, al di là della fictio
letteraria, Dante si pone terzo in continuità storica col troiano Enea e l’alto effetto imperiale e col cristiano
di Tarso e di Roma, apostolo del Cristo risorto e la sua predicazione della
fede «ch’è principio a la via di
salvazione».[28] L’Oriente che si innesta
sull’Occidente nel primo caso; di nuovo l’Oriente delle province di Roma che
veicola il proprio Credo lungo le vie dell’impero d’Occidente, nel secondo.[29] Sintesi dialogica tra
mondi e culture, tradizioni e lettere, filosofia e storia da un capo all’altro
della nostra antica-attuale Europa in
fieri: anche la Commedia di Dante reca
in sé i germi di una secondarietà ante
tempus, matrice dell’identità europea, romanamente intesa. Nella terra del tramonto,
la vis dantesca esalta il nerbo della
cultura dei popoli senza distinguere fra Virgilio pagano e Paolo cristiano o
tra Omero «poeta sovrano» e i musulmani Saladino, Avicenna, Averroè del Limbo.[30] Chi è superiore tra essi?
Tutti! Chi eliminare tra gli spiriti sapienti che hanno reso grande l’humanitas? Nessuno! Il cantore
fiorentino ragiona con la mente di un genio
cattolico, nel senso di “universale”, di un genio romano, nel senso di “secondario”. Non c’è il Medioevo nelle
sue parole, c’è già l’Umanesimo, il Rinascimento, il futuro attuale, politico e
spirituale dell’Europa stessa. L’Europa della contraddizione
non-contraddittoria, della concordia
discors, l’Europa del meticciato
di Scola, l’Europa romano-cristiana di Brague e Sordi, l’Europa della croce e
del minareto, l’Europa che afferma “Io
sono” perché “Tu sei”, l’Europa
di Enea e Paolo, di Dante e Virgilio, l’Europa dell’Humanitas.
Nel 1924 Paul Valéry, nel suo
saggio La crisi del pensiero,
scrisse: «Ovunque i nomi di Cesare, di Gaio, di Traiano e di Virgilio, ovunque
i nomi di Mosé e di San Paolo, ovunque i nomi di Aristotele, di Platone e di
Euclide hanno avuto un significato e un’autorità simultanei, ebbene proprio lì
si trova l’Europa».[31] Non occorre, tuttavia,
andar così in là negli anni per sentir pronunciate tanto belle e motivate
affermazioni, torniamo, anzi partiamo dai primi del Trecento e, senza troppo
stupore, scopriremo che il Limbo di Dante è già l’Europa. Il nobile castello, che si erge maestoso è
la “regione degli Eguali” di Hugo, è la perfetta dimora di quello «spirito
culturale generale, che attrae nella sua orbita l’umanità intera», l’umanità
storica che dalla filosofia e nella filosofia, attraverso la filosofia modella
la propria facies spirituale ed
esistenziale. In quel nobile castello impèra la «conoscenza teoretica infinita»
della grecità filosofica di Husserl. Pensiero teologico e filosofia si
avvolgono e avvicendano dall’Inferno al Purgatorio fino in Paradiso,
manifestandosi in volti e spiriti di femmine
e viri possenti, che grande hanno reso il mondo. Se il futuro di ciò che
chiamiamo Occidente è, secondo Brague, in quella via romana della
“secondarietà”, così per il genio Dante, già nel Trecento, è così evidente
riconoscersi non secondo, ma addirittura “sesto”,
dopo il senno di quanti avanti a lui furono poeti sovrani, signori de
l’altissimo canto e maestri di color che sanno. Dante china il proprio possente
ingegno alla maestria autorevole della sua guida oltremondana, vissuta sub Julo, sotto il dominio di dei falsi e bugiardi, eppure la sua
Weltanschaaung così moderna, così attuale, così europea, in senso spirituale,
non misconosce in alcun modo né il peripato o il ginnasio, né il pagano o il
musulmano, ideandosi prosecutore morale, in spirito e verità, di
quell’universale afflato d’anima europeo, che tutti li ricomprende e nessuno
esclude. Cosa vuol dire “essere europeo”? Cosa vuol dire “essere romano”? Cosa
vuol dire “essere cristiano”? Il senso è l’universale, il katholikos, il dialogos,
l’identità e l’alterità, l’identità nell’alterità e la dialogicità quale
essenza dell’essere Sé in Altro e Altro nei Sé dialoganti.
L’Europa è un patrimonio di
diversità, consapevolezza che ogni singola identità non è legittimata ad
imporsi come universalità, se non nella misura in cui accolga in se stessa quel
non-identico, quell’alterità che ne costituisce il fondamento identitario: essa
è una peregrina societas. «I popoli
sono unità spirituali» scriveva Husserl,
per quanto le nazioni europee possano essere nemiche,
tuttavia esse hanno una particolare affinità spirituale, che le accomuna e che travalica tutte le diversità
nazionali. [...] noi sentiamo che nella nostra umanità europea è innata un’entelechia che permane attraverso tutti
i mutamenti delle forme di vita europee e
conferisce ad essi il senso di uno sviluppo verso quella forma di vita e di essere che costituisce il suo
eterno polo ideale.[32]
Proseguiva il filosofo
chiedendosi
come si caratterizza la forma spirituale dell’Europa?
Europa qui non va intesa geograficamente, in conformità cioè alla carta
geografica, come se fosse possibile circoscrivere su questa base gli uomini che
vivono sul territorio europeo e considerarli l’umanità europea. […] Il termine
Europa allude evidentemente all’unità di una vita, di un’azione, di un lavoro
spirituale, con tutti i suoi fini, gli interessi, le preoccupazioni e gli
sforzi, con le sue conformazioni finali, i suoi istituti, le sue
organizzazioni. Entro questa unità gli uomini agiscono raccolti in multiformi
società di grado diverso, nella famiglia, nella tribù, nelle nazioni, in una
comunione interiore e spirituale, e […] nell’unità di una forma spirituale.[33]
Ebbene, proprio il richiamo all’umanità
europea è significativo e introduce a riflessioni più intime su quell’idealità
identitaria e universale verso il cui perseguimento hanno lavorato e lavorano
spiriti magni, da secoli. «Oggi le vecchie nazioni europee sono impegnate a
realizzare una nuova e più grande nazione, che le comprenda tutte e, senza
annullare la fisionomia di ciascuna, le confederi in un’unità fondata sulle
comuni radici culturali non meno che sui comuni interessi»[34],
così Mario Scotti definiva il processo di europeizzazione in atto nel mondo
moderno. Tralasciando i “comuni interessi” che possono essere politici ed
economici, ma non spirituali, voglio richiamarmi invece alla questione delle
radici culturali. S’è già chiarito sopra, grazie all’intervento della prof.ssa
Sordi, come non ci sia disaccordo fra romanitas
e christianitas, così come discordia
non ha motivo d’esserci sull’istituire una costituzione d’Europa richiamandosi
alla Grecia, a Roma e al Cristianesimo, sebbene quest’ultimo crei una
disaffezione maggiore tra gli strenui fautori del laicismo incontaminato.
Quando si parla di unione di
Stati non ha più senso, quasi, il definirsi in maniera autarchica, autoctona,
laica o atea, pur di rendersi idealmente aperti alla miriade di Altri che con
questo Sé definito/in-definito possano venire in contatto. Un’esistenza
in-creata, radici ex-nihilo non hanno
ragione d’esistere nella Storia, pertengono piuttosto alla teologia e a Dio. Il
Dio dei Cristiani veniva dall’Oriente, era un ebreo di Nazareth; le lingue dei
popoli europei hanno una derivazione latina e latino è l’alfabeto delle
scritture d’Europa; il nostro sistema numerico è arabo e persino il nostro cibo
non è solo nostro ma ha provenienza altra, straniera. Siamo ciò che siamo
perché abbiamo edificato la nostra identità sull’alterità, il nostro ego sum sul tu es: essere stranieri a noi stessi, canone riflessivo del Sé che
si apre ad accogliere l’Altro e, nel suo accipere
alium, noscit se ipsum.
5. Conclusione
Il genio della Romanità e della
Cristianità comprende la sua radice essere nata in altro, e così come Roma è
germoglio di Troia, Gerusalemme, Atene, Pietro è successor di Roma e Cristo.
Siamo ciò che siamo stati e saremo, nello specchio dell’Altro, di ciò che non
siamo, del di-verso, vasi eletti a contenere il nostro e l’Altrui per versare ad Altro eredità e memoria di un passato
nel presente al futuro. «L’armonia europea è dià-logos e pòlemos:
dialettica tragica», come ha fatto notare Massimo Cacciari ne L’Arcipelago.[35] Il binomio dialettico Identità-Alterità e la Secondarietà
teorizzata da Brague costituiscono la matrice dell’Infinito culturale
dell’anima d’Europa: concordia discors,
unitas-humanitas spirituale. È in questa coincidenza relativa di opposti,
av-versi/di-versi, in una superiore riaffermazione dell’identità europea come
consapevolezza dialogica che la
Chiesa , erede dello spirito secondario che fece di Roma un
impero katholikos, è chiamata e
chiama se stessa a divenire garante di un futuro orientato alla ricomprensione universale
dell’anima europea come complessità e sintesi di entità storico, religiose e
politiche sostanzialmente diverse e idealmente identiche. È in tale direzione
che la “voie romaine” conduce lungo
quel ponte fra Occidente ed Oriente, che forse l’entrata nell’UE della Turchia
potrà rappresentare, al di là del veto di Ratzinger non ancora papa, che pure,
nel considerare anomalo un paese di fede islamica come membro di un Ideale, l’Europa, a forte connotazione
storico-radicale cristiana, ora lo benedice, da pontefice, e benedice l’Islam, nella
consapevolezza della dia-logicità intrinseca al Cristianesimo stesso, fin dalle
parole di Giovanni, cantore di quel Logos,
Parola e Ragione che è Verità unificante, prospettiva di un ecumenismo civile
dei popoli, al pari dell’antica oikoumene
greco-romana. Verità che, in termini di relazioni, porta a riconsiderare i
rapporti tra Europa orientale e Europa occidentale, fra Europa e non-Europa, fra
Cristianesimo ed Islam, radici complesse e non univoche, le quali esigono una
più alta comprehensio, accoglienza e
comprensione, contro il rischio di diffondere la creazione di una “religione
civile” d’Europa di matrice cristiana, un presunto “caposaldo etico”
totalizzante, esclusivo di quel “meticciato” culturale, storico, religioso e
sociale che l’Idea-Europa è, nel suo
concepire, nel suo cum-capere sotto
un unico blasone universale Ebrei, Cristiani, Musulmani. Il respiro ampio di
un’idea necessita di due polmoni, come scrisse Giovanni Paolo II: «On ne peut pas respirer en chrétien – je
dirais plus: en catholique – avec un seul poumon; il faut avoir deux poumons,
c’est-à-dire oriental et occidental».[36]
[1] R. Brague, Europe, la voie romaine, Criterion,
Paris 1992, tr. it. A. Soldati, Il futuro
dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa, Rusconi Libri,
Milano 1998, passim. Il corsivo “secondarietà” è mio.
[2]
Ibid., p. 53
[3] Hor., Epist., II, 1, 156
[4] Cfr. A. Preti, Il terzo escluso. Psicopatologia del
rapporto con l’altro, in Annali della
Facoltà di Scienze della Formazione. Università di Cagliari. Nuova Serie,
2006, XXIX, pp. 303-327
[5]
F. Chabod, Storia dell’idea di Europa,
Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari 1961, passim
[6] J. Ratzinger – M. Pera, Senza radici. Europa, relativismo,
cristianesimo, islam, Arnoldo Mondatori editore, Milano 2004, p. 104 «[…]
Il principio cattolico contrasta con il sistema della Chiesa di Stato: esso
sottolinea il carattere universale della Chiesa, che non coincide con nessuna
nazione e con nessuna comunità statale, vive in tutte le nazioni e, malgrado la
fedeltà al proprio paese, crea comunque una comunità che va oltre i confini
nazionali.» È innegabile rintracciare nelle parole di Ratzinger lo stesso tipo
di universalità sovranazionale che era tipica dell’impero di Roma, benché qui
si parli di sovranazionalità religiosa, che ben poco ha a che fare con l’idea
politica di nazione e nazionalità e molto più è attinente allo spirito
universale dell’umanità intera.
[7] R. Brague, op.
cit., p. 180
[8] Cfr. F. Chabod, op. cit., passim
[9]
M. Sordi, L’eredità politica del mondo
classico, in Id., Alle radici
dell’Occidente, Marietti 1820, Genova 2002, p. 13
[10]
Dante, Mon., II, 3, 17
[11]
Voltaire, Le siècle de Louis XIV,
cap. II
[12]
Cfr. M. Cacciari, L’Arcipelago,
Adelphi, Milano 1997
[13] R. Brague, op.
cit., p. 169
[14] H. Fuhrmann, Einladung ins Mittelalter, C.H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung
(Oscar Beck), München 1987, tr. it. P. Vasconi, Guida al Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2004, p.157
[15]
Il riferimento è alla Donatio Constantini.
[16]
Cfr. M. Ovadia, L’esempio di Abramo,
in La Repubblica (30 maggio 2007)
[17]
Vd. U. Saba, Ulisse: “Oggi il mio
regno / è quella terra di nessuno. Il porto / accende ad altri i suoi lumi; me
al largo / sospinge ancora il non domato spirito / e della vita il doloroso
amore.”
[18]
Cfr. G. Pascoli, Poesie, Calypso, passim
[19]
LXX; Sal. 39, 13
[20]
M. Ovadia, cit., passim
[21]
Cfr. Giosuè 24, 13
[22]
R. Brague, op. cit., p. 149
[23]
Ibid., p. 151
[24] Tratto dall’intervista di
G. Valente a Rémi Brague, 30Giorni
(ottobre 2004)
[25] P. Veyne, Quand notre monde est devenu chrétien
(312-394), Albin Michel, Paris 2008, tr. it. E. Lana (a cura di), Quando l’Europa è diventata Cristiana
(312-394). Costantino, la conversione, l’impero, Garzanti, Milano 2008, p.
165 «[…] L’Europa non ha radici, né cristiane né di altro tipo, si è formata
attraverso stadi imprevedibili, infatti non ha una componente originale in
particolare. Non è preformata nel cristianesimo, non è lo sviluppo di un germe,
piuttosto è il risultato di un’epigenesi […]». Cfr. J.-C. Passeron, Le raisonnement sociologique, un espace non
poppérien de l’argumentation, Albin Michel, Paris 2006
[26] Tratto dall’intervista di
M. Blondet a Marta Sordi, Avvenire
(30 ottobre 2004)
[27] Inf. II, 32
[28] Inf. II, 30
[29]
Cfr. Peter Partner, Duemila anni di
Cristianesimo, Einaudi, Torino 2001 e 2003
[30] Cfr. Inf.
IV, 88-144
[31] Cfr. P. Valery, La crise de l’esprit, in Oeuvres,
Pléiade, t. 1, pp. 988-1014, tr. it. S. Agostini (a cura di), La crisi del pensiero e altri saggi “quasi
politici”, Il Mulino, Bologna 1994, p. 55
[32] Cfr. E. Husserl, La crisi dell’umanità europea e la filosofia,
in Id., Crisi e rinascita della cultura
europea, R. Cristin (a cura di), pp. 54-55
[33] Ibid., p. 53
[34] M. Scotti, L’Europa nel pensiero e nella poesia di
Dante: motivi attuali della sua concezione politica, da www.indire.it/leggeredante/, pubblicato per concessione
degli eredi, lo scritto risale al luglio del 2003 ed è inedito, p. 3
[35]
M. Cacciari, op. cit, p. 21
Nessun commento:
Posta un commento