martedì 28 giugno 2016

INTELLECTUS QUAERENS. Rassegna di studi di Scienze Religiose - editoriale dell'ISSR "Mater Gratiae" di Ascoli Piceno, collegato alla Pontificia Università Lateranense




 1

PONZIO PILATO

PRAEFECTVS IVDAEAE

 

Laura Balestra

 
 

1. Introduzione

«Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto». Così recita l’articolo 4, parte I, sezione II, Capitolo II del Catechismo della Chiesa Cattolica[1]. La Rivelazione, le fonti bibliche ed extra-bibliche, il Credo stesso evocano gli eventi di processo, passione e morte di Cristo come indissolubilmente legati all’epoca storica e al nome di Ponzio Pilato.

Chi era costui? Un personaggio realmente esistito o forse ascrivibile ad una letteraria fictio evangelica? Per quasi duemila anni la figura di Pilato è rimasta confinata nei racconti della buona novella, quale giudice incontrastato della sovranità e dell’ordine di Roma contro ogni dissidenza o sedizione, inscindibilmente avvinto nella sorte alla sua illustre vittima; ma che la sua esistenza sia reale è storicamente attestato non solo dalla tradizione cristiana, bensì anche da fonti romane e giudaiche, seppure l’aspetto che ne traspare mostri tratti spesso contraddittori e difformi, suscitando nell’immaginario un binomio dialettico tensionale fra il Pilato della storia e il Pilato della letteratura[2]. Per il Cristianesimo egli è l’artefice ultimo, l’esecutore per sententiam della condanna a morte comminata al re dei Giudei e messia, è l’uomo che lavit manus, proclamandosi innocens a sanguine iusti[3], ergendosi così ad emblema di sovrana indifferenza e, forse, vile ricusatore di una responsabilità, con ignavia[4], gravata ad altri.

 

2. Le testimonianze archeologiche e letterarie su Pilato

Ponzio Pilato fu il quinto prefetto della provincia romana imperiale della Giudea, dopo i predecessori Coponio (6-9 d.C.), Ambibulo (9-12 d.C.), Annio Rufo (12-15 d.C.) e Valerio Grato (15-26 d.C.). Nulla si conosce circa la sua carriera precedente a tale mandato, eccezion fatta per le origini, in verità controverse, presumibilmente sannitiche (umbre o abruzzesi), riconducibili alla gens vestina dei Pontii[5]. Di rango equestre, designato in carica dall’imperatore Tiberio, egli governò la provincia della Giudea per dieci anni, dal 26 al 36-37 d.C., ininterrottamente fino al suo forzato ritiro dall’ufficio, a seguito di una mala gestione della rivolta samaritana del 35-36 d.C. ca., motivo per cui, su ordine del legato di Siria, Lucio Vitellio, previa probabile destituzione[6], venne inviato a Roma in udienza dall’imperatore al fine di rendicontare sul proprio operato. Dal 37 d.C., anno del prevedibile arrivo nell’Urbe di Pilato, in concomitanza con la morte del princeps, ogni traccia storica si perde del praefectus Iudaeae, mentre copiose fioriscono le leggende attorno alla sua fine[7].

Alle fonti letterarie giudaiche, romane e neotestamentarie di consuetudine ben note e testimonianti la presenza di Pilato in Giudea come governatore, si associò nel 1961 un importante rinvenimento archeologico, unica testimonianza epigrafica attestante l’esistenza reale di un Pontius Pilatus, praefectus Iudaeae. L’iscrizione, risalente al I secolo d.C., fu ritrovata dalla Missione Archeologica Italiana, diretta da Antonio Frova, nel corso degli scavi del teatro romano di Cesarea Marittima in Palestina, databile verosimilmente al IV d.C. Leggibile nella sezione anteriore di un blocco calcareo di 82 x 68 x 21 cm ed in parte erasa e mutila nel lato sinistro, l’epigrafe era stata reimpiegata come gradino di una scala dell’orchestra e recava quattro linee di incisione integrabili, molto probabilmente e secondo le varie ipotesi formulate, come segue:

 

[Dedica sacra o Caesariensibu(s) o Nauti]S[8] TIBERIEVM

[ - ? PO]NTIVS PILATVS

[PRAEF]ECTVS IVDAE[A]E

[FECIT D]E[DICAVIT][9]

 

L’interesse storico di tale documento epigrafico è notevole, in primis come prova della presenza tangibile in Giudea nel I d.C., in età tiberiana, di un prefetto di nome Ponzio Pilato; in secondo luogo, il suo rinvenimento come materiale di reimpiego edilizio, presumibilmente in situ, conferma il ruolo svolto dalla città di Cesarea Marittima quale sede del governatore romano e della guarnigione di stanza in provincia[10]; riveste, poi, una singolare importanza inerente alla presenza di edifici dedicati al culto imperiale in sede provinciale: il non meglio identificato Tiberieum[11]. Va aggiunto, inoltre, che l’iscrizione dirada le nebbie dell’incertezza storica circa l’esatta definizione del titolo di governatore della Giudea prima dell’imperatore Claudio.

Le fonti letterarie a noi note, nella designazione del titolo magistratuale di Pilato come funzionario provinciale equestre di nomina imperiale, presentano una certa eterogeneità e confusione, che ha spesso creato non pochi dubbi su quale fosse l’esatta titolatura della carica. Esiste un’alternanza letteraria fra tre titoli greci e i loro corrispettivi latini (e)/parxoj/praefectus, e)pi/tropoj/procurator, h(gemw/n/praeses)[12].

Storicamente sappiamo che intorno al 46 d.C. l’imperatore Claudio riformò l’assetto dei titoli e delle funzioni dei governatori provinciali equestri, denominandoli indistintamente procuratores, titolo civile e finanziario, implementato dell’antica funzione esclusivamente militare degli antichi praefecti.

Filone Alessandrino, che scrive sotto Claudio, nella Legatio ad Gaium 38,299-304 definisce Pilato  «Uno dei prefetti nominato procuratore della Giudea» (hÅn tw¤n u(pa/rxwn e)pi/tropoj a)podedeigme/noj th¤j I)oudai/aj)), mantenendo un’ambiguità lessicale fra (e)/parxoj-u(/parxoj/praefectus) e (e)pi/tropoj/procurator). Flavio Giuseppe, in Bellum Iudaicum[13] e Antiquitates Iudaicae[14], definisce variamente Pilato ed altri suoi predecessori al governo della Giudea come (e)/parxoj, e)pi/tropoj o h(gemw/n). Tacito, intorno al 120 d.C., in Annales 15,44 narra di un tale Cristo condannato a morte per procuratorem Pontium Pilatum. I Vangeli e gli Atti, là onde premettono un titolo al romano cognomen Pilatus, lo designano come (h(gemw/n/praeses), genericamente reso in traduzione italiana con il termine governatore[15]. Storicamente è noto che, sotto Augusto e Tiberio, prefetti e procuratori ricoprissero cariche distinte e, come chiarito già nel lontano 1964 da uno studio condotto da Attilio Degrassi, «la confusione dei due titoli si può spiegare col fatto che i prefetti, investiti in genere di funzioni militari, assumevano nelle province equestri anche poteri finanziari»[16].

Dal 44-46 d.C. in poi è ad ogni modo accertato per via documentale che il titolo di procurator per i governatori di ceto equestre, affidatari di un ufficio provinciale in territori soggetti al diretto controllo dell’imperatore, avesse soppiantato ogni altro titolo precedente. L’iscrizione di Cesarea fornisce dunque una chiarificazione, in tal senso, circa l’assegnazione esatta della carica di Pilato in Giudea nel I. d.C., dimostrando come anacronistico o generico l’uso di (e)pi/tropoj/procurator, h(gemw/n/praeses) nelle fonti giudaiche, neotestamentarie e in Tacito.

Dal punto di vista strettamente letterario, la più antica testimonianza relativa alla figura di Pilato si trova nella già citata Legatio ad Gaium di Filone Alessandrino, vissuto fra il 30 a.C. ca. e il 45 d.C. ca., preziosa fonte coeva agli eventi narrati e accaduti in Palestina sotto il governatorato romano del I secolo, presumibilmente dopo il 31 d.C., nell’ultima parte del governo di Pilato. Il testo filoniano riferisce quanto segue:

 

[…] Pilato era stato nominato procuratore della Giudea, e non per onorare Tiberio, ma allo scopo di far del male al popolo, egli aveva eretto degli scudi dorati nel palazzo di Erode nella città santa. […] i giudei ammonirono Pilato di ritirare questa novità degli scudi e di non violare le leggi patrie che fino allora erano state conservate invariate nei secoli dai re e dagli imperatori. Ma dal momento che Pilato, uomo dall’indole inflessibile, testarda e crudele, si ostinava a rifiutare, gli gridarono: “Non scatenare una rivolta! Non provocare la guerra! Non distruggere la pace! Violare le antiche leggi non rende onore all’imperatore. Non fare di Tiberio una scusa per insultare questa nazione; egli non voleva distruggere le nostre tradizioni, e se tu dici di sì, mostraci tu stesso un editto, una lettera o qualcosa di simile, cosicché possiamo smettere di disturbare te e possiamo invece mandare ambasciatori come supplici presso il nostro signore”. Quest’ultima frase esasperò Pilato più di tutte le altre, poiché temeva che andando davvero in delegazione essi si lamentassero anche del resto del suo governo, descrivendo la corruzione, le violenze, le rapine, le torture, gli abusi, le frequenti condanne a morte senza processo e la sua crudeltà infinita e selvaggia. […] Quando i dirigenti giudei videro che Pilato si stava pentendo di quello che aveva fatto, anche se non voleva farlo vedere, scrissero una lettera molto esplicita a Tiberio, e quello, leggendola, quante cose e quanti insulti disse contro Pilato! […] Poi […] Tiberio scrisse a Pilato […] ordinandogli di togliere subito gli scudi e di portarli dalla capitale alla città costiera di Cesarea […]. In questo modo erano salvaguardati sia l’onore dell’imperatore sia le antiche usanze di Gerusalemme (Leg. 38,299-304)[17].

 

 

L’episodio degli scudi dorati mostra un’immagine crudele, tracotante e inflessibile di Pilato, irrispettoso nei confronti della nazione giudaica e della sua legge. Tale raffigurazione è tuttavia ascrivibile ad uno stereotipo descrittivo applicato generalmente da Filone nella rappresentazione dei nemici dei Giudei. Le espressioni, a tal proposito, risultano formulari con un frequente impiego di termini ricorrenti e affinità lessicali con altre numerose descrizioni di oppressori antigiudaici. Ogni nemico è inflessibile (a)/kampoj), testardo (au)qa/dhj), crudele (a)mei/liktoj), corrotto (dwrodo/koj), tracotante (u(bristh/j), oltraggioso (e)phreasth/j),  astioso (e)/gkotoj), capace di condannare senza processo (a)/kritoj)[18]. La figura del Pilato storico rimane dunque, in Filone, invischiata nella retorica teologica delle sue opere, tese di norma ad esaltare le virtù di personaggi benevoli e magnanimi verso i Giudei, siano essi Romani o meno, imperatori, membri della familia Caesaris o funzionari amministrativi, nell’intento più ampio di rimarcare il lealismo del proprio popolo all’Impero di Roma, anche attraverso atti di denuncia, sovente secondo formule stereotipate, di quanti, corrotti, agissero vessatoriamente contro la Giudea e i suoi abitanti. Ulteriore documentazione sul praefectus Iudaeae, di matrice giudaica, risale ad un periodo più tardo rispetto a Filone e ai Sinottici ed è il cosiddetto Testimonium Flavianum di Flavio Giuseppe, successivo al 90 d.C.. Il testo, contenuto in Antichità giudaiche 18,64, e forse frutto di tarde interpolazioni cristiane, narra:

In questo periodo visse Gesù, uomo saggio, se pure bisogna dirlo uomo. Era infatti artefice di opere straordinarie, maestro degli uomini che ricevono con piacere la verità. E attirò a sé molti giudei e anche molti greci. Egli era il Cristo. E quando Pilato, su denuncia dei primi tra noi, lo condannò alla croce, quelli che lo avevano amato al principio non cessarono di amarlo. E apparve loro nuovamente vivente il terzo giorno, poiché i divini profeti avevano detto queste e altre innumerevoli cose meravigliose di lui. E ancor oggi il gruppo chiamato da lui dei cristiani non ha cessato di esistere.

 

Il governatore Ponzio Pilato viene qui ricordato in relazione alla crocifissione (staur%= e)pitetimhko/toj Pila/tou).

Una delle prime testimonianze letterarie, bibliche su Pilato risale al 65 d.C. ca. ed è il riferimento, più che altro cronologico, alla «bella marturi/a» di Gesù Cristo davanti a Ponzio Pilato (e)pi/ Ponti/ou Pila/tou), rimembrata da San Paolo nella Prima Lettera a Timoteo (6,13).

Nel Vangelo di Marco, databile fra il 60 e il 70 d.C., Pilato è menzionato in due passi all’interno del cosiddetto racconto della passione, che si estende da 14,1 a 16,8. In particolare in Mc 15,1-15 si legge:

 

1 Al mattino i capi dei sacerdoti con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio tennero consiglio e, fatto legare Gesù, lo condussero e lo consegnarono a Pilato. 2 Pilato lo interrogò: “Sei tu il re dei Giudei?” Gli rispose: “Tu lo dici”. 3 I capi dei sacerdoti lo accusavano di molte cose. 4 Perciò Pilato lo interrogò di nuovo: “Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!” 5 Ma Gesù non rispose più nulla, sicché Pilato ne restò meravigliato. 6 Egli era solito, in ogni festività, rilasciare un prigioniero, a loro richiesta. 7 Ve n’era uno chiamato Barabba, il quale era stato imprigionato insieme ai sediziosi che, durante la sommossa, avevano commesso un omicidio. 8 Ed essendo accorsa, la folla incominciò a reclamare ciò che egli era solito concedere. 9 Pilato, allora, rispose loro: “Volete che vi liberi il re dei Giudei?” 10 Sapeva infatti che per invidia i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato. 11 Ma i capi dei sacerdoti aizzarono la folla, affinché rilasciasse loro piuttosto Barabba. 12 Pilato, allora, prendendo di nuovo la parola, domandò loro: “Che cosa, dunque, volete che faccia di colui che voi chiamate il re dei Giudei?” 13 Quelli gridarono di nuovo: “Crocifiggilo!” 15 Pilato, perciò, volendo dare soddisfazione alla folla, rilasciò loro Barabba e consegnò Gesù perché, dopo averlo flagellato, fosse crocifisso.

 

 

E in Mc 15,43-45 la narrazione prosegue, dopo la crocifissione, col racconto della richiesta di restituzione del corpo di Gesù a Pilato da parte di Giuseppe di Arimatea: «43 Giuseppe d’Arimatea, distinto membro del consiglio, il quale aspettava anch’egli il regno di Dio, venne, si fece coraggio, entrò da Pilato e gli chiese il corpo di Gesù. 44 Pilato si meravigliò che fosse già morto. Perciò, chiamato il centurione, gli domandò se fosse morto da tempo. 45 Informato dal centurione, concesse il cadavere a Giuseppe, […]».

Il Vangelo di Matteo, databile all’80-90 d.C., menziona il prefetto Pilato in tre passi, il primo dei quali è Mt 27,1-26:

 

1 Venuto il mattino, tutti i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo tennero consiglio contro Gesù per farlo morire. 2 Poi, legatolo, lo condussero e consegnarono al governatore Pilato. [3-10…] 11 Gesù fu condotto alla presenza del governatore, il quale lo interrogò: “Sei tu il re dei Giudei?”. E Gesù: “Tu lo dici!” 12 E mentre i sommi sacerdoti e gli anziani lo accusavano, egli non rispondeva nulla. 13 Allora dice a lui Pilato: “Non senti quante cose attestano contro di te?” 14 Ma non gli rispose neppure una parola, con grande meraviglia del governatore. 15 In occasione della festa, il governatore era solito rilasciare al popolo un detenuto, a loro scelta. 16 Al momento c’era un prigioniero distinto, di nome Barabba. 17 Mentre essi erano radunati, Pilato domandò: “Chi volete che vi rilasci, Barabba o Gesù, quello che è chiamato Cristo?” 18 Sapeva, infatti, che per odio l’avevano consegnato. 19 Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie mandò a dirgli: “Nulla vi sia fra te e questo giusto, poiché oggi ho molto sofferto in sogno a causa sua”. 20 Ma i sommi sacerdoti e gli anziani convinsero la folla a chiedere la liberazione di Barabba e la morte di Gesù. 21 Il governatore prese dunque la parola e domandò: “Chi dei due volete che vi rilasci?” Essi risposero: “Barabba!” 22 E Pilato a loro: “Che farò, dunque, di Gesù che è chiamato Cristo?” Tutti rispondono: “Sia crocifisso!” 23 Ed egli: “Ma che male ha fatto?” Ed essi gridavano più forte: “Sia crocifisso!” 24 Pilato, visto che non otteneva nulla e che, anzi, stava sorgendo un tumulto, prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla dicendo: “Sono innocente di questo sangue: voi ne risponderete”. 25 E tutto il popolo rispose: “Il suo sangue è su noi e sui nostri figli!” 26 Così rilasciò loro Barabba, mentre Gesù, dopo averlo flagellato, lo consegnò perché fosse crocifisso.

 

 

Nuovamente egli ricorre nell’episodio di Giuseppe di Arimatea in Mt 27,58: «(Giuseppe di Arimatea) andò da Pilato e gli chiese il corpo di Gesù. Pilato ordinò che gli fosse consegnato». E ritorna ancora in Mt 27,62-66, relativamente alla custodia della tomba di Gesù:

 

 

62 Il giorno seguente, quello dopo la Parasceve, i sommi sacerdoti e i farisei si recarono insieme da Pilato 63 per dirgli: “Signore, ci siamo ricordati che quel seduttore, quando era ancora in vita, affermò: Dopo tre giorni risorgerò. 64 Ordina perciò che la tomba sia custodita fino al terzo giorno, perché non vengano i suoi discepoli, lo portino via e poi dicano al popolo: È risorto dai morti. Allora quest’ultima impostura sarà peggiore della prima”. 65 Rispose Pilato: “Avete la vostra guardia: prendete le precauzioni opportune”. 66 Essi andarono e assicurarono il sepolcro sigillando la pietra e mettendovi la guardia.

 

 

Le aggiunte narrative di Matteo, rispetto al Vangelo di Marco, sono notevoli e suggestive sia nell’episodio del sogno della moglie di Pilato (27,19) sia nell’atto di lavarsi le mani di quest’ultimo (27,24), purificandosi idealmente e ritualmente, forse, dall’onta del sangue innocente.

Nel Vangelo di Luca e negli Atti, risalenti all’80 d.C. ca., Pilato è attestato in ben cinque occasioni. Prima del processo, in Lc 3,1 («Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato governava la Giudea (h(gemoneu/ontoj Ponti/ou Pila/tou), Erode era tetrarca della Galilea […]») e brevemente in un accenno al solo nome, Pilatus, in Lc 13,1 e, in Lc 20,20, esclusivamente nel titolo di governatore, praeses.

Il corpo centrale del nucleo narrativo lucano coinvolge il governatore romano e la sua vittima nel corso del processo e dello scambievole rimbalzo di competenze giurisdizionali fra il prefetto ed Erode, in Lc 23,1-25:

 

1 Tutta l’assemblea si alzò, lo condussero da Pilato 2 e cominciarono ad accusarlo: “Abbiamo trovato costui che sobillava la nostra gente, impediva di dare i tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re”. 3 Pilato lo interrogò: “Sei tu il re dei Giudei?” Egli rispose: “Tu lo dici”. 4 Pilato disse ai sommi sacerdoti e alla folla: “Non trovo nessun motivo di condanna in quest’uomo”. 5 Ma quelli insistevano: “Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea, fino a qui”. 6 Udito ciò, Pilato chiese se fosse Galileo 7 e, saputo che apparteneva alla giurisdizione di Erode, lo mandò da Erode, che proprio in quei giorni si trovava a Gerusalemme. 8 Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto. Da tempo infatti desiderava vederlo, per averne sentito parlare, e sperava di vederlo compiere qualche miracolo. 9 Lo interrogò con insistenza, ma Gesù non rispose nulla. 10 Intanto i capi dei sacerdoti e i dottori della legge, che erano presenti, insistevano nell’accusarlo. 11 Erode, insieme ai suoi soldati, lo insultò e lo schernì; gli mise addosso una veste bianca e lo rimandò a Pilato. 12 Erode e Pilato, che prima erano nemici, da quel giorno diventarono amici. 13 Pilato, riuniti i capi dei sacerdoti, le autorità e il popolo, disse: 14 “Mi avete presentato quest’uomo come sobillatore del popolo. Ecco, io l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in lui nessuna delle colpe di cui lo accusate; 15 e neppure Erode, perché ce lo ha rimandato. Dunque egli non ha fatto nulla che meriti la morte. 16 Perciò, dopo averlo fatto frustare, lo rimetterò in libertà. 17 Per la festa egli doveva mettere loro in libertà qualcuno. 18 Ma essi si misero a gridare tutti insieme: “Togli di mezzo costui! Rimettici in libertà Barabba!” 19 Questi era stato messo in prigione per una sommossa scoppiata in città e per omicidio. 20 Pilato parlò loro di nuovo, volendo rimettere in libertà Gesù. 21 Ma essi gridavano: “Crocifiggilo, crocifiggilo!” 22 Egli, per la terza volta, disse loro: “Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato nulla in lui che meriti la morte. Perciò lo farò frustare e poi lo rilascerò”. 23 Ma essi insistevano a gran voce, chiedendo che fosse crocifisso. E le grida loro si facevano sempre più forti. 24 Pilato allora decretò che fosse eseguita la loro richiesta. 25 Rilasciò colui che era stato messo in prigione per sommossa e omicidio, e che quelli richiedevano, e abbandonò Gesù alla loro volontà.

 

 

L’ultimo passo lucano in cui figura Pilato è di nuovo relativo a Giuseppe di Arimatea e alla restituzione del corpo di Cristo, in Lc 23,52. Negli Atti, il praefectus Iudaeae, ricorre in 3,13; 4,27 e 13,28 in una luce alquanto garantista, apologetica - ad eccezione forse di At 4,27 – e propensa all’innocenza dell’imputato Gesù piuttosto che alla sua condanna, aspetto del resto caratteristico della narrazione lucana, come in seguito del Vangelo giovanneo:

 

Il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato davanti a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo. (At 3,13)

 

Davvero in questa città hanno fatto congiura contro il tuo santo servo Gesù, da te consacrato, Erode e Ponzio Pilato con i pagani e i popoli d’Israele (At 4,27)

 

E pur non avendo trovato alcun motivo di condanna a morte, chiesero a Pilato che fosse ucciso (At 13,28)

 

Nel Vangelo di Giovanni, databile in genere fra l’85-95 d.C. e comunque non più tardo del 100-110 d.C., «La figura di Pilato presenta molte analogie con quella che s’incontra in Marco[…]»[19]: un governatore inflessibile e abile manipolatore, tutt’altro che debole o vacillante, bensì irridente e scaltro nel canzonare e schernire il popolo giudeo con le sue, a parer romano, folli o risibili credenze messianiche. A detta della studiosa inglese, Helen K. Bond, «nel Vangelo di Giovanni, Pilato non è un governatore impotente e benevolo ma, al pari dei Giudei, è un rappresentante del mondo ostile che rifiuta Gesù» e tuttavia «ricopre una importante funzione apologetica quando dichiara per tre volte l’innocenza di Gesù»[20]. A differenza dei tre Sinottici, Giovanni assegna una considerevole ed estesa sezione narrativa al processo civile, coinvolgendo le autorità romane fin dal momento dell’arresto e tacendo ogni forma di processo giuridico giudaico, seppure in Gv 11,47-53 i sacerdoti-capi e i farisei sono descritti in atto di convocare il sinedrio per discutere sull’homo (qui) multa signa facit e decretare, infine, ut interficerent eum. Nella narrazione giovannea, nonostante si faccia accenno ad un interrogatorio di Anna, suocero di Caifa (Gv 18,19-23), e ad un successivo invio di Gesù dalla casa di Anna a quella del sommo sacerdote (Gv 18,24), tuttavia, permane l’assenza di una qualunque attestazione giuridica valida di processo formale ad opera delle autorità giudaiche, in sostanziale discordanza con i Sinottici. L’attenzione narrativa del quarto vangelo si espleta nell’acribia della descrizione di fasi, parole e gesti del solo processo romano e della crocifissione (Gv 18,28-40; 19):

 

28 Allora condussero Gesù dalla casa di Caifa al pretorio. Era di buon mattino. […] Pilato dunque uscì fuori, da loro, e disse: “Quale accusa portate contro quest’uomo?” 30 Gli risposero: “Se costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato”. 31 Disse loro Pilato: “Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge”. Gli dissero i Giudei: “A noi non è permesso mettere a morte nessuno”. […]33 Allora Pilato entrò di nuovo nel pretorio, chiamò Gesù e gli disse: “Sei tu il re dei Giudei?” 34 Gesù rispose: “Dici questo da te stesso o altri te l’hanno detto di me?” 35 Rispose Pilato: “Sono io forse un Giudeo? La tua nazione e i sacerdoti-capi ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto? 36 Rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo. Se di questo mondo fosse il mio regno, le mie guardie avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei. Ora, il mio regno non è di qui”. 37 Gli disse allora Pilato: “Dunque tu sei re?” Rispose Gesù: “Tu dici che io sono re. Io sono nato per questo e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è della verità, ascolta la mia voce”. 38 Gli dice Pilato: “Che cos’è la verità?” Detto questo, uscì di nuovo dai Giudei e disse loro: “Io non trovo in lui colpa alcuna. 39 Ma voi avete l’usanza che io vi liberi qualcuno a Pasqua. Volete dunque che vi liberi il re dei Giudei?” 40 Si misero allora a gridare: “Non lui, ma Barabba!” Barabba era un bandito.

 

 

Lo scenario descritto al lettore mostra un prefetto di Giudea debole e vacillante, sfuggente e contraddittorio, scisso e dubbioso nell’altalenante andirivieni fra il pretorio e la piazza, fra Gesù e la folla. Eppure, dal serrato racconto dell’interrogatorio sull’identità e l’azione del presunto malefactor che, nella tradizione giovannea, si apre poi a riflessioni sulla basilei/a, il regno di Gesù, Giovanni prosegue nella narrazione tratteggiando Pilato come affatto turbato dalla reticenza o silenzio della vittima dinanzi a varie domande - tra le quali la celeberrima «quid est veritas?» - anzi, paradossalmente, la mancata risposta a tale filosofica quaestio sembra sostenere, nelle successive parole del rappresentante romano, il riscontro di un’assenza di colpevolezza nell’accusato. L’autorità romana rileva nell’imputato Gesù ou)demi/a ai)ti/a. Nessuna colpa: l’innocenza. Per tre volte, successivamente, Pilato ribadisce alla folla dei Giudei questa non colpevolezza. A suo giudizio viene a mancare il capo di imputazione necessario all’esercizio dello ius gladii, alla condanna stessa[21].

L’inquisitorio rito romano della cognitio extra ordinem viene ad essere inficiato, la notitia criminis fornita dal Sinedrio circa un presunto crimen di laesa maiestas, in forza della proclamata regalità messianica di Gesù, viene a decadere e, in quello che appare un ultimo tentativo del prefetto di dimittere (=salvare) un uomo non colpevole[22], Pilato propone una liberazione nell’ambito della consueta amnistia pasquale. Gesù o Barabba? L’innocens o il l$sth/j? «Barabba era un bandito», scrive Giovanni, eppure la folla lo vuole libero e chiede, con insistenza, la crocifissione di Gesù. Pilato, infine, acconsente e lo consegna ut crocifigeretur.

Come si spiegano allora quei precedenti tentativi di dimissio in favore di Gesù? Una contraddittoria fictio narrativa? Un’ondivaga incertezza del prefetto romano, suscettibile di pressioni esterne?

 In realtà, come argomentato nel saggio Ponzio Pilato della già citata ricercatrice inglese Helen K. Bond, ogni dissertazione meta-letteraria che voglia considerare Pilato come «un personaggio ben disposto, intenzionato a liberare Gesù» incontra delle difficoltà. «Il prefetto gli infligge una punizione corporale durissima, lo presenta nelle vesti di un re fantoccio agli stessi Giudei che gliel’hanno consegnato […]», inoltre, anche nell’episodio di Barabba «Pilato afferma che sta portando Gesù fuori per dimostrare che non trova in lui nessuna colpa, s’intende nessuna colpa politica, poiché la regalità che Gesù dice di possedere non costituisce una minaccia per lo Stato romano». Nell’acconciare e schernire l’uomo dello scandalo come re dei Giudei, a detta di Bond e di un altro studioso, Barnabas Lindars, autore di The Gospel of John[23], «in Giovanni, Pilato si prende gioco non solo dei giudei e delle loro speranze nazionalistiche ma anche del prigioniero che gli sta di fronte»[24]. Tale riflessione, seppur plausibile, non ostacola altre considerazioni di natura teoretica sull’argomento. Nel prosieguo del racconto giovanneo la salda autorità imposta da Pilato su Gesù e i Giudei vacilla improvvisamente, velata forse da un manto di superstizione. In Gv 19,7 i Giudei, in risposta all’invito del prefetto ad assumere loro stessi l’onere della crocifissione, replicano di avere una legge secondo la quale Gesù debet mori, quia Filium Dei se fecit. L’essersi fatto Figlio di Dio è il nuovo crimen di matrice giudaica, che desta peraltro un inspiegabile timore nel rappresentante romano, connesso forse a credenze pagane sull’esistenza di esseri divini o semi-divini, figli di dei o dei essi stessi[25]. È in tale timorosa circostanza che Pilato rientra nel pretorio cercando di persuadere Gesù a parlargli, a chiarire la sua posizione, rivendicando una vitae necisque potestas su di lui (Gv 19,10) ed è dal momento in cui l’accusato Figlio di Dio ribatte a Pilato l’inconsistenza di ogni potestas terrena se questa non provenisse desuper, che il funzionario imperiale mette in campo l’estremo tentativo di liberarlo. Ancora una volta, però, dinanzi alla folla e all’accusa mossagli da quest’ultima di non ottemperare con liceità alla fili/a tou= Kai/saroj, qualora avesse liberato Gesù, Pilato cede alle pressioni[26], ma con sarcasmo, domandando, forse con retorica, ai Giudei: «Crocifiggerò il vostro re?». Il prefetto di Giudea estrae, così, dall’animo ottenebrato d’ira della folla un giuramento di fedeltà, inconsapevole e forzato, all’unico re dei Romani e dei sudditi provinciali: il Cesare, l’imperatore.

Che sostanzialmente fosse questo lo scopo di Pilato, fin dall’inizio, e cioè di condurre i rivoltosi abitanti della turbolenta provincia di Giudea a rinnegare la sovranità del loro Dio e del Suo presunto messia, per chinare volontariamente, inconsciamente il capo loro all’autorità di Roma? Non è certo, ma la volontà del governatore di beffare fino all’estremo il popolo conquistato, fece bella mostra di sé nel titulus in aramaico, greco e latino (Gv 19,20), affisso sulla croce: Gesù Nazareno re dei Giudei[27], prova effettiva dell’esistenza di un verdetto formale. Per la mentalità antica, nessun uomo poteva uccidere un essere divino e tanto meno riservandogli una morte fra le più ignominiose e infamanti: la morte in croce; eppure i timores di Pilato nei confronti del Filius Dei sembrano ora essersi dissolti: il servile supplicium era una pena comminata a schiavi e a delinquenti, non certo ad uomini liberi o a re e inchiodare nell’ignominia un individuo alla croce, ponendovi in capo un titolo regale, costituiva una duplice irrisione, visto che i Giudei, risentiti, chiesero a Pilato di modificare il testo del titulus crucis, ma invano. Secca e dispotica fu la risposta del governatore: quod scripsi scripsi[28].

Tutt’altro che debole e incerto, dunque, il comportamento del praefectus romano? Parrebbe di sì. Nell’atteggiamento del Pilato giovanneo non si ravvisano tratti magnanimi o bonari, egli presenta piuttosto molte somiglianze con l’inflessibile governatore di Marco: deride il popolo e in modo subdolo lo costringe alla resa incondizionata di ogni pretesa nazionalistica o messianica[29].

 

3. Conclusione

Sopravvissuto nella memoria cristiana in virtù del suo legame con il Salvatore, il nome di Ponzio Pilato, quinto prefetto di Giudea, mantiene nelle fonti (giudaiche e neotestamentarie), che di lui attestano l’esistenza, un’ambiguità di carattere e d’azione, non immediatamente riconducibile ad un profilo univoco, bensì ad una congerie di declinazioni interpretative spesso sfuggenti e contraddittorie o paradossalmente paradigmatiche, stereotipate, mai tuttavia uniformanti al di là della semplice attestazione storica.




[1] Catechismo della Chiesa Cattolica, parte I, sez. II, cap. II, art. 4, http://www.vatican.va/archive/ITA0014/__P1L.HTM.
[2] Cf. H.K. Bond, Pontius Pilate in history and interpretation, Cambridge 1998, 20002; trad. it., Ponzio Pilato. Storia e interpretazione, Studi biblici 158, Brescia 2008, 11-22.
[3] Cf. Mt 27,24.
[4] Cf. Inf. III, 59-60. Alcune interpretazioni critiche tendono a ricondurre alla figura di Pilato e non di Celestino V, l’ignavo personaggio dantesco «[…]che fece per viltade il gran rifiuto».
[5] Cf. H.G. Pflaum, Les procurateurs équestres sous le Haut-Empire Romain, I-III, Paris 1950 e Id., Les carrières procuratoriennes équestres sous le Haut-Empire Romain, Paris 1960, Supplément 1982, I ss.
[6] E. SchÜrer, The History of the Jewish People in the Age of Jesus Christ (175 B.C. – A.D. 135), I-III in 4 tomi, ed. G. Vermes - F. Millar - M. Goodman, Edinburgh 1973-1987; trad. it., Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo, Brescia 1985-1998, I, 261 ss.
[7] Cf. E. Lavagnino, «Pilato,Ponzio», in Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano 1952, 1471-1478: «La leggenda dà particolari sulla fine di Pilato. Dopo l’arrivo a Roma, la storia tace di lui. La leggenda è però tanto varia che va dal farne un suicida a proclamarlo santo. Secondo Eusebio (Hist. eccl., II, 7: PG 20, 155) sarebbe stato esiliato a Vienne, nelle Gallie, ove si suicidò; secondo Malalas (Chronographia, 10: PG 97, 390) sarebbe stato decapitato da Nerone. La morte violenta sembra essere stata probabilmente la misera fine di Pilato».
[8] In merito alle diverse interpretazioni della dedica cfr. B. Lifshitz, «Inscriptions latines de Césarée (Caesarea Palaestinae), I. Le Tiberieum», Latomus XXII (1963) 783; G. AlfÖldi, «L’iscrizione di Ponzio Pilato: una discussione senza fine?», [accesso 20.12.2014], www.fondazionecanussio.org/atti2011/Alfoldy.pdf, 139-144.
[9] Per maggiori dettagli e varianti di integrazione al testo dell’iscrizione cf. A. Frova, «L’iscrizione di Ponzio Pilato a Cesarea», Rendiconti dell’Istituto Lombardo. Accademia di Scienze e Lettere. Classe di Lettere e Scienze morali e storiche XCV (1961) 419-434; S. Bartina, «Poncio Pilato en una inscripción monumentaria palestinense», Cultura Bíblica 19 (1962) 170-175; A. Degrassi, «Sull’iscrizione di Ponzio Pilato», Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche XIX (marzo-aprile 1964) fasc. 3-4, 59-65; G. AlfÖldi, «L’iscrizione di Ponzio Pilato», (cf. nt. 8), 139.143: «anche la lettura o la restituzione dell’ultima riga del testo ha scatenato la fantasia degli studiosi, come mostrano le varie proposte [d]é[dit], [f]é[cit] oppure [fecit dedic]à[vitque], [fécit, d]é[dicavit], [ded(it), déd(icavit)], [dedic]à[vit], [---? dedicavit], [ornàvit], [de suof]é[cit], [de suo]é[didit]. Sfortunatamente, tutte queste proposte sono sbagliate. […] arriviamo al problema del contenuto dell’ultima riga dell’iscrizione di Pilato. Non c’è dubbio che la lettera E con un apex, collocata esattamente nel centro della riga molto danneggiata, non possa essere altra cosa che il verbo [ref]é[cit]. […]in ogni caso Pilato non fu il costruttore del Tiberieum, perché questo edificio, nella sua forma verosimilmente più modesta rispetto al Druseum, fu opera di Erode. Possiamo supporre che Pilato, molto devoto a Tiberio, abbia monumentalizzato la costruzione erodea, che a circa tre decenni dalla sua costruzione aveva probabilmente anche bisogno di un restauro […]»; Id., «Pontius Pilatus und das Tiberieum von Caesarea Maritima», Scripta Classica Isrelica 18 (1999) 85-108; Id., «Zwei römische Statthalter im Evangelium: die epigraphischen Quellen», in Il contributo delle scienze storiche allo studio del Nuovo Testamento. Atti del Convegno Roma 2-6 ottobre 2012, ed. E. Dal Covolo – R. Fusco, Città del Vaticano 2005, 216-242; E. Weber, «Zur Inschrift des Pontius Pilatus», Bonner Jahrbücher CLXXI (1971) 194-200; C. Gatti, «A proposito di una rilettura dell’epigrafe di Ponzio Pilato», Aevum 1 (gennaio-aprile 1981) 13-21. Per la questione del Druseum cf. anche R.L. Vann, «The Drusion: a candidate for Herod’s lighthouse at Caesarea Maritima», International Journal of Nautical Archaeology 20 (1991) 123-139.
[10] Ios., Bell., II, 9 (2), 12 (5), 169-174, 332 e III, 9, 1 (409); Ant. XVIII, 3 (I), 55-69. Vd. anche At 23,23-24.35; 25,1-13 e Tac., Hist., 2, 78 («[…]Caesaream: illa Syriae, hoc Iudaeae caput est»). Cf. H.K Bond, (cf. nt. 2), 33 e G. Felten, Storia dei tempi del Nuovo Testamento. Giudaismo e Paganesimo al tempo di N.S. Gesù Cristo e degli Apostoli. I. La storia politica degli Ebrei dal 63 a. Cristo al 135 d. Cristo, Torino 1932, 70-71 e 200.
[11] G. AlfÖldi, «L’iscrizione di Ponzio Pilato», (cf. nt. 8), 140-145.
[12] Cf. J.P. LÉmonon, Pilate et le gouvernement de la Judée. Textes et monuments, Études bibliques, Paris, 1981, 45-48 e 50-58; A.H.M. Jones, «Procurators and Prefects in the Early Principate», Studies in Roman Government and Law, Oxford 1960, 115-125; A.N. Sherwin-White, «Procurator Augusti», Papers of the British School at Rome 15 (n.s. 2) 1939, 11-15 e Id., Roman Society and Roman Law in the New Testament, Oxford 1963, 6-12.
[13] Ios., Bell. Iud., II, 8 (I), 169-177; VI, 5 (3); IX, 2; XX, 9.
[14] Ios., Ant. Iud., XVIII, 3 (I), 55 e 177; XX, 6, 2.
[15] Mt 27,2; Lc 3,1; 20,20. Altre generiche occorrenze neotestamentarie del termine (h(gemw/n) o della sua variante verbale (h(gemoneu/w/h(gemone/w) per designare autorità romane in Giudea e Siria sono presenti in Lc 2,2 e 1Pt 2,14.
[16] A. Degrassi, «Sull’iscrizione di Ponzio Pilato» (cf. nt. 9), 64.
[17] H.K. Bond, (cf. nt. 2), 55-56.
[18] H.K. Bond, (cf. nt. 2), 62-63 e ivi, nota 6.
[19] H.K. Bond, (cf. nt. 2), 227.
[20] H.K. Bond, (cf. nt. 2), 238.
[21] Cf. L. Balestra, «Mito, Verità, Rivelazione: il “non resistere malo” in Girard e Nietzsche», Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia  [On-line edition] (25 ottobre 2010), http://mondodomani.org/dialegesthai/lb02.htm.
[22] Cf. Gv 19,12.
[23] B. Lindars, The Gospel of John, London 1972.
[24] Cf. H.K. Bond, (cf. nt. 2), 250-251 e, in particolare per l’uso in Giovanni del termine greco a)/nqrwpoj da parte di Pilato in riferimento a Gesù, nell’intenzione di deriderne la divinità regale, 251.
[25] Cfr. Hom., Il. 5, 683; Od. 11, 568; Epitt., Dissert. 2, 16, 44; 3, 24, 14-15.
[26] Cf. R. Girard, La vittima e la folla. Violenza del mito e cristianesimo, ed. G. Fornari, Treviso 20012, 70 : «se Pilato non avesse ceduto alla pressione mimetica e non si fosse lui stesso associato alla folla […]».
[27] Gv 19,19; Mt 27,37; Lc 23,38.
[28] Gv 19,22.
[29]Cf. H.K. Bond, (cf. nt. 2), 260-261;W.A. Meeks, The Prophet King. Moses Traditions and the Johannine Christology, Leiden 1967, 64-67; R.J. Cassidy, John’s Gospel in New Perspective. Christology and the Realities of Roman Power, Maryknoll 1992, 84-88.

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