I
Cristo e l’Übermensch
nell’opera di Friedrich W. Nietzsche
di Laura
Balestra
Ogni grande filosofia è l’auto-confessione del suo autore, reca le
sue memorie e in essa nulla esiste di impersonale:
questa è l’idea di filosofia animata da Nietzsche ed è da qui che bisogna
partire per stabilire una via da
percorrere entro il caos a-sistematico, rapsodico del suo pensiero.
1. Also sprach
Zarathustra
«A questo libro si deve augurare la diffusione della
Bibbia, tutto il suo prestigio canonico, la sua serie di commenti». Così
il 2 aprile 1883, Heinrich Köselitz, alias Peter Gast, discepolo, amico,
correttore di bozze di tutte le opere di Nietzsche, definì Così parlò Zarathustra. Redatta fra il gennaio del 1883 e il
gennaio del 1885, Nietzsche stesso tratteggiò all’editore Ernst Schmeitzner la
sua opera con queste parole:
Oggi ho una buona notizia da darle: ho
compiuto un passo decisivo – e tale che, a mio avviso, può essere vantaggioso
per Lei. Si tratta di un volumetto (di appena cento pagine), il cui titolo è Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e
per nessuno. Si tratta di una “composizione poetica”, o di un “quinto
Vangelo”, oppure è qualcosa per cui non esiste ancora una definizione: è la mia
opera di gran lunga più seria e anche più allegra, e accessibile a chiunque.
Quale senso può rivestire l’asserzione
nietzscheana unitamente a quella di Gast? Che cos’ha di particolare quest’opera,
a tal punto da auspicarle una futura diffusione, commenti e prestigio degni
della Sacra Scrittura? Quale pregio “canonico” vorrebbe attribuirle il suo
autore tanto da azzardarne la definizione di “quinto Vangelo” o addirittura di “un
quid indefinibile”? Il problema che
si pone dinanzi agli occhi di ogni lettore di Nietzsche, studioso o semplice
curioso che sia, risiede nella comprensione, di per sé mai pienamente
esaustiva, del suo pensiero. Un pensare altalenante, vacillante, incostante,
oscillante fra l’asserire e il contraddire, in un moto ondoso inquietante,
dilagante in un arcipelago di poche isole ferme: eterno ritorno, Übermensch,
volontà di potenza, morte di Dio, amor
fati, trasvalutazione dei valori.
In che modo viene delineata la figura
dell’Übermensch negli scritti di Nietzsche? È plausibile ravvisare nell’idea di
Oltreuomo la figura del Salvatore cristiano? Quanta parte
hanno, nella filosofia di Nietzsche, la matrice “ellenica” e la matrice “cristiana”
della sua formazione giovanile? L’oggetto della ricerca è complesso e troppo
spesso rischia di vedere inficiata la sua reale natura dietro interpretazioni e
semplificazioni prive di rispondenze filologiche che tendono a travisare il
pensiero del filosofo, chiarendone alcuni aspetti immediatamente evidenti, ma
lasciandone in ombra altri. Tre saranno le linee direttrici entro le quali si
svilupperà la trattazione: la dimensione meridiana dell’evento-avvento dell’Übermensch,
così come esso viene enunciato nell’opera Così
parlò Zarathustra; l’idea di tratti paganeggianti rintracciabili nelle
descrizioni dell’Übermensch date da Nietzsche in Genealogia della morale, L’Anticristo,
Umano troppo umano, nonché nell’opera
precedentemente citata; interpretazione dionisiaca dell’annuncio oltreomistico
di Zarathustra di contro alle più recenti esegesi “cristiche” dell’Übermensch
nietzscheano.
L’idea fondante risiede nel pensiero
che vede l’Oltreuomo, nel suo eterno e indefinito oltrepassamento di sé, come
immagine interamente pagana, il cui dio è l’antico Dioniso. Il Greco del
pensiero tragico e il fiero Romano, che nella causa di Roma ha il senso del suo
esistere e del suo essere, questi sono, forse, i paradigmi di colui che
tramonta a se stesso per riaffermare eternamente il suo Sì alla terra, a quella
terra che i Greci e i Romani non avvelenavano con dietromondi che cercassero un
senso-altro a questa esistenza in una venefica tensione verso l’ultraterreno.
Nietzsche sembra descrivere l’Übermensch come icona dell’uomo antico
greco-romano, dei popoli del Sì alla vita, una vita aristocratica emblema della
grecità arcaica e classica. D’altronde come non pensare a un Oltreuomo “aristocratico-signore”.
Meditiamo sulla distinzione fatta da Nietzsche tra la morale dei Signori e la
morale degli Schiavi: è palese, a livello lessicale, come la separazione dei
concetti di “buono” e “cattivo” potesse appartenere, de iure et de facto, solo all’ἄριστος a colui che nel mondo
classico era considerato “il migliore”, il “più nobile”, laddove nobiltà di
sangue e nobiltà d’animo, inscindibilmente legate nel mondo antico, costituivano
il fondamento di ἀρετή, ἀριστεία, καλοκἀγαϑία.
Copiosi riferimenti testuali
nietzscheani sembrano condurre verso la delineazione di un Oltreuomo “pagano”,
seppur nei suoi tratti non del tutto definiti o in-definiti. Greco quando pensa e onnicointuisce il
pensiero tragico e abissale dell’eterno ritorno, Romano quando nel riconquistare il senso della terra, riscopre la
profondità della superficie e la sua fierezza, spezzando le catene
nichilistiche della vanità e della compassione. Figure fiere, aliene dalla
molle compassione decadente cristiana.
Cosa Nietzsche pensasse del
Cristianesimo è noto. Sovente affiorano nella sua filosofia, in relazione alla
religione cristiana, antinomie e aporie. Karl Jaspers notò come le valutazioni
negative di Nietzsche sul Cristianesimo si stagliassero a tal punto in primo
piano da fare quasi scomparire quelle positive, sostenendo come
la sua ostilità alla religione della decadenza nascesse dalla sua propria
essenza cristiana, dai suoi “impulsi cristiani”. Cresciuto in un ambiente di fede protestante, dopo
la prematura morte del padre e del fratello, la madre e la nonna paterna
attesero alla sua educazione religiosa, ispirata al pietismo e alla fiduciosa
credenza del cuore in un Dio buono e misericordioso. Successivamente, nelle
scuole di Naumburg e Pforta, Nietzsche si accostò a uno studio critico,
filologico dei testi sacri, arricchitosi più tardi grazie alle conoscenze fornitegli
dall’amico e docente di teologia Franz Overbeck. Gli studi teologici, affiancati e soppiantati in
seguito dalle acquisizioni filologiche di Lipsia e Basilea, indussero il
giovane a ripensare i fondamenti teoretici del Cristianesimo, alla luce della cultura
classica. Il genio ellenico venne affermandosi come violenta esuberanza vitale
di contro all’invilirsi moraleggiante di ogni istinto naturale e forte sotto il
peso della croce. All’uomo spirituale Nietzsche oppose l’uomo dionisiaco; al malriuscito sofferente e inerme, l’uomo agonico;
all’altruismo servile, l’egoismo aristocratico; alla torma dei compassionevoli
in Cristo, l’uomo dell’eterno ritorno, discepolo del dio Dioniso. Se è vero che, parlando di Nietzsche, il suo nome
evoca nichilismo, ateismo, va sostenuto che la filosofia nietzscheana non è
senza dio, non è un umanesimo a-teo, bensì un umanesimo teologicamente pagano:
un neo-paganesimo, una resuscitata religione mitica, sul cui trono siede l’antico
dio veniente e redentore, Dioniso. Questi è l’unico nume degno di sopravvivere
accanto all’Oltreuomo. Dopo la morte del dio falso e bugiardo dei cristiani, una divinità del mito risorge sulle
ceneri del dio della storia.
Non si manifesta, forse, arduo il
pensiero di una eventuale somiglianza tra una siffatta figura antica, l’Übermensch
dionisiaco e l’uomo nuovo, Cristo? L’esegesi filosofica più recente sull’Übermensch
è stata avanzata da Massimo Cacciari nell’opera L’Arcipelago. In essa si tende a giustapporre l’icona Oltreuomo e l’icona
Cristo sulla base di accostamenti determinativi formalmente e vagamente
plausibili, ma non sufficientemente icastici e validi tali da poter generare
una qualsivoglia affermazione fondante e decisiva sul pensiero di Nietzsche. Il
tratto comune del tramonto e del farsi altro da sé rimane un punto fermo nella
esposizione di Cacciari, ma la struttura, l’origine dell’agire tramontante,
credo abbia una natura completamente diversa nelle due icone. Cristo, nel suo
tramontare a se stesso, nella sua kénosis,
non fa altro che abbandonare la propria temporanea dimensione umana per
recuperare la mai, di fatto, abbandonata dimensione divina. Il suo dio non è il
danzante Dioniso, né il dio giudeo-cristiano che presiede al presunto
ordinamento etico del mondo, ma il dio strutturalmente altro da sé, eternamente
inquisitore di se stesso, il quale solo nell’eterna domanda che chieda ragione
del suo essere può rendersi identico nella non identità, identico nell’alterità:
il Deus Trinitas, il quale solo
mantenendo il proprio ego sum qui sum
questuante, relazionale, può rendersi capace di ospitare in sé l’alterità quale
fondamento del suo essere. L’Oltreuomo, così come Nietzsche lo delinea nelle
sue opere, vive nell’universo del mito, non assume mai una dimensione che gli
sia propria, non è mai uomo né mai effettivamente oltre-uomo, perché se la facies precipua di una siffatta
oltre-figura è l’eterno tramonto, l’eterno oltrepassamento di sé, allora esso
sarà sempre destinato a esistere al di là di un “se stesso” che di fatto non
potrà mai dirsi tale, se non nell’attimo di Gordio, nel supremo atto della decisione,
per poi subito oltrepassare anche questo
attimo come non costitutivo del suo essere, di un Essere il cui dio altro non è
che l’indefinito ed eterno gioco danzante, γελῶντι πρωσώπω nel pensiero possibilitante
della creazione, della distruzione e della ri-creazione, incessantemente,
eternamente, di nuovo: Dioniso.
L’Oltreuomo non potrebbe mai affermare
la propria “egoità”, perché l’asserire determinante ne negherebbe l’esistenza e
l’identità stessa ne costituirebbe interruzione e limite della propria Überwindung. Cristo può, al contrario,
affermare Ego sum perché il suo farsi
altro incede fra due dimensioni: l’umanità e la divinità, alla luce di una
dimensione storica. Egli deve tramontare a se stesso solo per riacquistare una
delle sue già costitutive identità-alterità in lui compresenti. L’Oltreuomo non
avrà mai un’identità, o meglio, il suo oltrepassarsi dovrebbe presupporre un’identità
da oltrepassare, ma è l’identità di un attimo, il tempo di un Sì e poi di nuovo
il ritorno. Si potrebbe anche pensare che la dimensione stessa del tramonto sia
la sua identità. Congetture e pensieri; ad ogni
modo io vedo una diversità tra il tramonto oltreomistico e il tramonto
cristico. Il Cristo inteso da Cacciari in senso oltreomistico, come colui che
si sradica da ogni fissità identitaria per recuperare e rinnovare una propria
identità nell’alterità, è il Cristo che si libera da ogni φιλοψυχία, da ogni amor di sé per recuperare una dimensione altra che costituisca il fondamento e l’essere
dell’identità stessa di tutta l’umanità. Come la dimensione Oltreuomo è un
luogo che abita già dentro l’uomo, così Cristo è colui che non vive al di fuori
dell’uomo, ma è presente nell’interiorità di ogni cristiano, facendo in tal
modo di ogni cristiano il luogo dell’apertura all’Altro.
Il tramontare di Cristo è un aprirsi all’Altro
in una palingenesi radicale presente in ogni suo eterno farsi altro da sé.
Cristo ha vissuto il suo tramonto due volte, è tramontato kenoticamente quando
si è incarnato, abbandonando la sua dimensione divina, pur mantenendola
presente nella sua apparente assenza, ed è tramontato all’acquisita dimensione
umana per riappropriarsi dell’habitus
divino e mantenerlo tale ἐν τοῖς οủρανοῖς.
Se poi, da cristiani, pensiamo che il
regno sia in noi e che la nostra anima sia e conservi una scintilla divina,
allora potremmo leggere Cristo come eternamente presente in noi, oltre che
massimamente lontano da noi e dunque un Cristo che, pur permanendo nella sua
trascendenza, abbia conservato, tuttavia, un vestigium di umanità in lui nel suo farsi scintilla in noi. È come
se il nostro Θεός trinitario si mantenesse in dialogo con la creatura,
pervadendo con la sua φιλία il rapporto tra noi e Lui. L’Oltreuomo, invece,
sembrerebbe una figura strutturata su canoni non solo pagani, ma fortemente
individualistici, una figura che vive del suo tramonto, come singolo, eternamente e ciclicamente
senza mai approdare a ni-ente. Il ϑεός dell’Oltreuomo, Dioniso, non ha nessuna φιλία col tramontante, né
questo è una sua creatura; vivono per se stessi, e questo in Nietzsche è
chiaramente un retaggio della religio
antica. Nel Cristianesimo, Nietzsche avvertiva la mancanza di forza virile, la
nostalgia della fierezza antica, degli ideali classici sui quali sembra
modellare il suo Übermensch. L’assimilazione di Cristo e dell’Oltreuomo
avanzata da Cacciari, per quanto suggestiva, può avere ragion di sussistere
solo su base formale e non, per così dire, contenutistica. La forma del loro
essere tramontanti è il solo carattere che unisce i due, il solo, forse accanto
all’abbandono di ogni fissità. L’ἀγὰπη che pervade il Cristianesimo è assente nell’immagine dell’Übermensch,
quest’ultimo non è un uomo, non è un dio, è forse un παράδειγμα antico che
Nietzsche-Zarathustra ha voluto insegnare agli uomini per renderli di nuovo
capaci di un dio che non li esautori della loro potenza, né della loro terra,
ma mostri loro come riappropriarsi
della propria natura, quella natura im-mediata che solo l’antichità aveva
intuito e conquistato, mitizzandola al di là ed entro i confini della storia.
Un παράδειγμα contrastivo della santa menzogna, del dio che atterra e suscita,
inventore dell’al di là della vita?
[...]
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AA.VV., Frammenti di cultura del Novecento. Nietzsche, Vailati, Simmel, Schlick, Arendt, Zubiri, Bateson, Dell'Oro, Warburg, Dàvila, Garin, Melandri, Gilgamesh Edizioni, Mantova 2013