1
PONZIO
PILATO
PRAEFECTVS
IVDAEAE
Laura Balestra
1.
Introduzione
«Patì
sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso,
morì e fu sepolto». Così recita l’articolo 4, parte I, sezione II, Capitolo II del
Catechismo della Chiesa Cattolica. La Rivelazione, le fonti bibliche ed
extra-bibliche, il Credo stesso
evocano gli eventi di processo, passione e morte di Cristo come indissolubilmente
legati all’epoca storica e al nome di Ponzio Pilato.
Chi
era costui? Un personaggio realmente esistito o forse ascrivibile ad una
letteraria fictio evangelica? Per
quasi duemila anni la figura di Pilato è rimasta confinata nei racconti della
buona novella, quale giudice incontrastato della sovranità e dell’ordine di
Roma contro ogni dissidenza o sedizione, inscindibilmente avvinto nella sorte alla
sua illustre vittima; ma che la sua esistenza sia reale è storicamente
attestato non solo dalla tradizione cristiana, bensì anche da fonti romane e
giudaiche, seppure l’aspetto che ne traspare mostri tratti spesso
contraddittori e difformi, suscitando nell’immaginario un binomio dialettico tensionale
fra il Pilato della storia e il Pilato della letteratura. Per il Cristianesimo egli è l’artefice
ultimo, l’esecutore per sententiam
della condanna a morte comminata al re
dei Giudei e messia, è l’uomo che
lavit manus, proclamandosi innocens a sanguine iusti, ergendosi così ad emblema di sovrana
indifferenza e, forse, vile ricusatore di una responsabilità, con ignavia,
gravata ad altri.
2.
Le testimonianze archeologiche e letterarie su Pilato
Ponzio
Pilato fu il quinto prefetto della provincia romana imperiale della Giudea,
dopo i predecessori Coponio (6-9 d.C.), Ambibulo (9-12 d.C.), Annio Rufo (12-15
d.C.) e Valerio Grato (15-26 d.C.). Nulla si conosce circa la sua carriera
precedente a tale mandato, eccezion fatta per le origini, in verità
controverse, presumibilmente sannitiche (umbre o abruzzesi), riconducibili alla
gens vestina dei Pontii. Di rango equestre, designato in carica
dall’imperatore Tiberio, egli governò la provincia della Giudea per dieci anni,
dal 26 al 36-37 d.C., ininterrottamente fino al suo forzato ritiro dall’ufficio,
a seguito di una mala gestione della rivolta samaritana del 35-36 d.C. ca., motivo
per cui, su ordine del legato di Siria, Lucio Vitellio, previa probabile destituzione,
venne inviato a Roma in udienza dall’imperatore al fine di rendicontare sul
proprio operato. Dal 37 d.C., anno del prevedibile arrivo nell’Urbe di Pilato,
in concomitanza con la morte del princeps,
ogni traccia storica si perde del praefectus
Iudaeae, mentre copiose fioriscono le leggende attorno alla sua fine.
Alle
fonti letterarie giudaiche, romane e neotestamentarie di consuetudine ben note
e testimonianti la presenza di Pilato in Giudea come governatore, si associò
nel 1961 un importante rinvenimento archeologico, unica testimonianza
epigrafica attestante l’esistenza reale di un Pontius Pilatus, praefectus Iudaeae. L’iscrizione, risalente al I
secolo d.C., fu ritrovata dalla Missione Archeologica Italiana, diretta da
Antonio Frova, nel corso degli scavi del teatro romano di Cesarea Marittima in
Palestina, databile verosimilmente al IV d.C. Leggibile nella sezione anteriore
di un blocco calcareo di 82 x 68 x 21 cm ed in parte erasa e mutila nel lato
sinistro, l’epigrafe era stata reimpiegata come gradino di una scala
dell’orchestra e recava quattro linee di incisione integrabili, molto
probabilmente e secondo le varie ipotesi formulate, come segue:
[Dedica sacra o Caesariensibu(s) o Nauti]S
TIBERIEVM
[ - ? PO]NTIVS PILATVS
[PRAEF]ECTVS IVDAE[A]E
L’interesse
storico di tale documento epigrafico è notevole, in primis come prova della presenza tangibile in Giudea nel I d.C.,
in età tiberiana, di un prefetto di nome Ponzio Pilato; in secondo luogo, il
suo rinvenimento come materiale di reimpiego edilizio, presumibilmente in situ, conferma il ruolo svolto dalla
città di Cesarea Marittima quale sede del governatore romano e della
guarnigione di stanza in provincia;
riveste, poi, una singolare importanza inerente alla presenza di edifici
dedicati al culto imperiale in sede provinciale: il non meglio identificato Tiberieum. Va aggiunto, inoltre, che l’iscrizione
dirada le nebbie dell’incertezza storica circa l’esatta definizione del titolo
di governatore della Giudea prima dell’imperatore Claudio.
Le
fonti letterarie a noi note, nella designazione del titolo magistratuale di
Pilato come funzionario provinciale equestre di nomina imperiale, presentano
una certa eterogeneità e confusione, che ha spesso creato non pochi dubbi su
quale fosse l’esatta titolatura della carica. Esiste un’alternanza letteraria
fra tre titoli greci e i loro corrispettivi latini (e)/parxoj/praefectus, e)pi/tropoj/procurator, h(gemw/n/praeses).
Storicamente
sappiamo che intorno al 46 d.C. l’imperatore Claudio riformò l’assetto dei
titoli e delle funzioni dei governatori provinciali equestri, denominandoli indistintamente
procuratores, titolo civile e
finanziario, implementato dell’antica funzione esclusivamente militare degli
antichi praefecti.
Filone
Alessandrino, che scrive sotto Claudio, nella Legatio ad Gaium 38,299-304 definisce Pilato «Uno dei prefetti nominato
procuratore della Giudea» (hÅn tw¤n u(pa/rxwn e)pi/tropoj a)podedeigme/noj th¤j
I)oudai/aj)), mantenendo
un’ambiguità lessicale fra (e)/parxoj-u(/parxoj/praefectus) e
(e)pi/tropoj/procurator). Flavio Giuseppe, in Bellum Iudaicum
e Antiquitates Iudaicae,
definisce variamente Pilato ed altri suoi predecessori al governo della Giudea
come (e)/parxoj, e)pi/tropoj o h(gemw/n). Tacito, intorno al 120 d.C.,
in Annales 15,44 narra di un tale Cristo
condannato a morte per procuratorem Pontium
Pilatum. I Vangeli e gli Atti, là onde premettono un titolo al romano cognomen Pilatus, lo designano come (h(gemw/n/praeses),
genericamente reso in traduzione italiana con il termine governatore. Storicamente è noto che, sotto Augusto
e Tiberio, prefetti e procuratori ricoprissero cariche distinte e, come
chiarito già nel lontano 1964 da uno studio condotto da Attilio Degrassi, «la
confusione dei due titoli si può spiegare col fatto che i prefetti, investiti
in genere di funzioni militari, assumevano nelle province equestri anche poteri
finanziari».
Dal
44-46 d.C. in poi è ad ogni modo accertato per via documentale che il titolo di
procurator per i governatori di ceto
equestre, affidatari di un ufficio provinciale in territori soggetti al diretto
controllo dell’imperatore, avesse soppiantato ogni altro titolo
precedente. L’iscrizione di Cesarea fornisce dunque una chiarificazione, in tal
senso, circa l’assegnazione esatta della carica di Pilato in Giudea nel I. d.C.,
dimostrando come anacronistico o generico l’uso di (e)pi/tropoj/procurator, h(gemw/n/praeses) nelle fonti giudaiche, neotestamentarie e in Tacito.
Dal
punto di vista strettamente letterario, la più antica testimonianza relativa
alla figura di Pilato si trova nella già citata Legatio ad Gaium di Filone Alessandrino, vissuto fra il 30 a.C. ca.
e il 45 d.C. ca., preziosa fonte coeva agli eventi narrati e accaduti in
Palestina sotto il governatorato romano del I secolo, presumibilmente dopo il
31 d.C., nell’ultima parte del governo di Pilato. Il testo filoniano riferisce
quanto segue:
[…] Pilato era
stato nominato procuratore della Giudea, e non per onorare Tiberio, ma allo
scopo di far del male al popolo, egli aveva eretto degli scudi dorati nel
palazzo di Erode nella città santa. […] i giudei ammonirono Pilato di ritirare
questa novità degli scudi e di non violare le leggi patrie che fino allora
erano state conservate invariate nei secoli dai re e dagli imperatori. Ma dal
momento che Pilato, uomo dall’indole inflessibile, testarda e crudele, si
ostinava a rifiutare, gli gridarono: “Non scatenare una rivolta! Non provocare
la guerra! Non distruggere la pace! Violare le antiche leggi non rende onore
all’imperatore. Non fare di Tiberio una scusa per insultare questa nazione;
egli non voleva distruggere le nostre tradizioni, e se tu dici di sì, mostraci
tu stesso un editto, una lettera o qualcosa di simile, cosicché possiamo
smettere di disturbare te e possiamo invece mandare ambasciatori come supplici
presso il nostro signore”. Quest’ultima frase esasperò Pilato più di tutte le
altre, poiché temeva che andando davvero in delegazione essi si lamentassero
anche del resto del suo governo, descrivendo la corruzione, le violenze, le
rapine, le torture, gli abusi, le frequenti condanne a morte senza processo e
la sua crudeltà infinita e selvaggia. […] Quando i dirigenti giudei videro che
Pilato si stava pentendo di quello che aveva fatto, anche se non voleva farlo
vedere, scrissero una lettera molto esplicita a Tiberio, e quello, leggendola,
quante cose e quanti insulti disse contro Pilato! […] Poi […] Tiberio scrisse a
Pilato […] ordinandogli di togliere subito gli scudi e di portarli dalla
capitale alla città costiera di Cesarea […]. In questo modo erano salvaguardati
sia l’onore dell’imperatore sia le antiche usanze di Gerusalemme (Leg. 38,299-304).
L’episodio degli scudi dorati mostra un’immagine crudele,
tracotante e inflessibile di Pilato, irrispettoso nei confronti della nazione
giudaica e della sua legge. Tale raffigurazione è tuttavia ascrivibile ad uno
stereotipo descrittivo applicato generalmente da Filone nella rappresentazione
dei nemici dei Giudei. Le espressioni, a tal proposito, risultano formulari con
un frequente impiego di termini ricorrenti e affinità lessicali con altre numerose
descrizioni di oppressori antigiudaici. Ogni nemico è inflessibile (a)/kampoj), testardo (au)qa/dhj), crudele (a)mei/liktoj), corrotto (dwrodo/koj), tracotante (u(bristh/j), oltraggioso (e)phreasth/j), astioso (e)/gkotoj), capace di condannare senza processo (a)/kritoj).
La figura del Pilato storico rimane
dunque, in Filone, invischiata nella retorica teologica delle sue opere, tese
di norma ad esaltare le virtù di personaggi benevoli e magnanimi verso i
Giudei, siano essi Romani o meno, imperatori, membri della familia Caesaris o funzionari amministrativi, nell’intento più
ampio di rimarcare il lealismo del proprio popolo all’Impero di Roma, anche
attraverso atti di denuncia, sovente secondo formule stereotipate, di quanti,
corrotti, agissero vessatoriamente contro la Giudea e i suoi abitanti. Ulteriore
documentazione sul praefectus Iudaeae, di matrice giudaica, risale ad
un periodo più tardo rispetto a Filone e ai Sinottici ed è il cosiddetto Testimonium Flavianum di Flavio
Giuseppe, successivo al 90 d.C.. Il testo, contenuto in Antichità giudaiche 18,64, e forse frutto di tarde interpolazioni
cristiane, narra:
In
questo periodo visse Gesù, uomo saggio, se pure bisogna dirlo uomo. Era infatti
artefice di opere straordinarie, maestro degli uomini che ricevono con piacere
la verità. E attirò a sé molti giudei e anche molti greci. Egli era il Cristo.
E quando Pilato, su denuncia dei primi tra noi, lo condannò alla croce, quelli
che lo avevano amato al principio non cessarono di amarlo. E apparve loro
nuovamente vivente il terzo giorno, poiché i divini profeti avevano detto
queste e altre innumerevoli cose meravigliose di lui. E ancor oggi il gruppo
chiamato da lui dei cristiani non ha cessato di esistere.
Il
governatore Ponzio Pilato viene qui ricordato in relazione alla crocifissione (staur%=
e)pitetimhko/toj Pila/tou).
Una
delle prime testimonianze letterarie, bibliche su Pilato risale al 65 d.C. ca.
ed è il riferimento, più che altro cronologico,
alla «bella marturi/a»
di Gesù Cristo davanti a Ponzio Pilato (e)pi/ Ponti/ou Pila/tou), rimembrata da San Paolo nella Prima Lettera a Timoteo (6,13).
Nel
Vangelo di Marco, databile fra il 60
e il 70 d.C., Pilato è menzionato in due passi all’interno del cosiddetto racconto della passione, che si estende
da 14,1 a 16,8. In particolare in Mc 15,1-15 si legge:
1 Al mattino i
capi dei sacerdoti con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio tennero
consiglio e, fatto legare Gesù, lo condussero e lo consegnarono a Pilato. 2 Pilato
lo interrogò: “Sei tu il re dei Giudei?” Gli rispose: “Tu lo dici”. 3 I capi
dei sacerdoti lo accusavano di molte cose. 4 Perciò Pilato lo interrogò di
nuovo: “Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!” 5 Ma Gesù non
rispose più nulla, sicché Pilato ne restò meravigliato. 6 Egli era solito, in
ogni festività, rilasciare un prigioniero, a loro richiesta. 7 Ve n’era uno
chiamato Barabba, il quale era stato imprigionato insieme ai sediziosi che,
durante la sommossa, avevano commesso un omicidio. 8 Ed essendo accorsa, la
folla incominciò a reclamare ciò che egli era solito concedere. 9 Pilato,
allora, rispose loro: “Volete che vi liberi il re dei Giudei?” 10 Sapeva
infatti che per invidia i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato. 11 Ma i
capi dei sacerdoti aizzarono la folla, affinché rilasciasse loro piuttosto
Barabba. 12 Pilato, allora, prendendo di nuovo la parola, domandò loro: “Che
cosa, dunque, volete che faccia di colui che voi chiamate il re dei Giudei?” 13
Quelli gridarono di nuovo: “Crocifiggilo!” 15 Pilato, perciò, volendo dare
soddisfazione alla folla, rilasciò loro Barabba e consegnò Gesù perché, dopo
averlo flagellato, fosse crocifisso.
E
in Mc 15,43-45 la narrazione
prosegue, dopo la crocifissione, col racconto della richiesta di restituzione
del corpo di Gesù a Pilato da parte di Giuseppe di Arimatea: «43 Giuseppe
d’Arimatea, distinto membro del consiglio, il quale aspettava anch’egli il
regno di Dio, venne, si fece coraggio, entrò da Pilato e gli chiese il corpo di
Gesù. 44 Pilato si meravigliò che fosse già morto. Perciò, chiamato il
centurione, gli domandò se fosse morto da tempo. 45 Informato dal centurione,
concesse il cadavere a Giuseppe, […]».
Il
Vangelo di Matteo, databile all’80-90
d.C., menziona il prefetto Pilato in tre passi, il primo dei quali è Mt 27,1-26:
1 Venuto il
mattino, tutti i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo tennero consiglio
contro Gesù per farlo morire. 2 Poi, legatolo, lo condussero e consegnarono al
governatore Pilato. [3-10…] 11 Gesù fu condotto alla presenza del governatore,
il quale lo interrogò: “Sei tu il re dei Giudei?”. E Gesù: “Tu lo dici!” 12 E
mentre i sommi sacerdoti e gli anziani lo accusavano, egli non rispondeva
nulla. 13 Allora dice a lui Pilato: “Non senti quante cose attestano contro di
te?” 14 Ma non gli rispose neppure una parola, con grande meraviglia del
governatore. 15 In occasione della festa, il governatore era solito rilasciare
al popolo un detenuto, a loro scelta. 16 Al momento c’era un prigioniero
distinto, di nome Barabba. 17 Mentre essi erano radunati, Pilato domandò: “Chi
volete che vi rilasci, Barabba o Gesù, quello che è chiamato Cristo?” 18
Sapeva, infatti, che per odio l’avevano consegnato. 19 Mentre egli sedeva in
tribunale, sua moglie mandò a dirgli: “Nulla vi sia fra te e questo giusto,
poiché oggi ho molto sofferto in sogno a causa sua”. 20 Ma i sommi sacerdoti e
gli anziani convinsero la folla a chiedere la liberazione di Barabba e la morte
di Gesù. 21 Il governatore prese dunque la parola e domandò: “Chi dei due
volete che vi rilasci?” Essi risposero: “Barabba!” 22 E Pilato a loro: “Che
farò, dunque, di Gesù che è chiamato Cristo?” Tutti rispondono: “Sia
crocifisso!” 23 Ed egli: “Ma che male ha fatto?” Ed essi gridavano più forte:
“Sia crocifisso!” 24 Pilato, visto che non otteneva nulla e che, anzi, stava
sorgendo un tumulto, prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla
dicendo: “Sono innocente di questo sangue: voi ne risponderete”. 25 E tutto il
popolo rispose: “Il suo sangue è su noi e sui nostri figli!” 26 Così rilasciò
loro Barabba, mentre Gesù, dopo averlo flagellato, lo consegnò perché fosse
crocifisso.
Nuovamente
egli ricorre nell’episodio di Giuseppe di Arimatea in Mt 27,58: «(Giuseppe di
Arimatea) andò da Pilato e gli chiese il corpo di Gesù. Pilato ordinò che gli
fosse consegnato». E ritorna ancora in Mt 27,62-66, relativamente alla custodia
della tomba di Gesù:
62 Il giorno
seguente, quello dopo la Parasceve, i sommi sacerdoti e i farisei si recarono
insieme da Pilato 63 per dirgli: “Signore, ci siamo ricordati che quel
seduttore, quando era ancora in vita, affermò: Dopo tre giorni risorgerò. 64
Ordina perciò che la tomba sia custodita fino al terzo giorno, perché non
vengano i suoi discepoli, lo portino via e poi dicano al popolo: È risorto dai
morti. Allora quest’ultima impostura sarà peggiore della prima”. 65 Rispose
Pilato: “Avete la vostra guardia: prendete le precauzioni opportune”. 66 Essi
andarono e assicurarono il sepolcro sigillando la pietra e mettendovi la
guardia.
Le
aggiunte narrative di Matteo, rispetto al Vangelo
di Marco, sono notevoli e suggestive sia nell’episodio del sogno della
moglie di Pilato (27,19) sia nell’atto di lavarsi le mani di quest’ultimo (27,24),
purificandosi idealmente e ritualmente, forse, dall’onta del sangue innocente.
Nel
Vangelo di Luca e negli Atti, risalenti all’80 d.C. ca., Pilato è
attestato in ben cinque occasioni. Prima del processo, in Lc 3,1 («Nell’anno
quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato governava la Giudea
(h(gemoneu/ontoj
Ponti/ou Pila/tou),
Erode era tetrarca della Galilea […]») e brevemente in un accenno al solo nome,
Pilatus, in Lc 13,1 e, in Lc 20,20,
esclusivamente nel titolo di governatore, praeses.
Il
corpo centrale del nucleo narrativo lucano coinvolge il governatore romano e la
sua vittima nel corso del processo e dello scambievole rimbalzo di competenze
giurisdizionali fra il prefetto ed Erode, in Lc 23,1-25:
1 Tutta
l’assemblea si alzò, lo condussero da Pilato 2 e cominciarono ad accusarlo:
“Abbiamo trovato costui che sobillava la nostra gente, impediva di dare i
tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re”. 3 Pilato lo interrogò:
“Sei tu il re dei Giudei?” Egli rispose: “Tu lo dici”. 4 Pilato disse ai sommi
sacerdoti e alla folla: “Non trovo nessun motivo di condanna in quest’uomo”. 5
Ma quelli insistevano: “Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la
Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea, fino a qui”. 6 Udito ciò, Pilato chiese
se fosse Galileo 7 e, saputo che apparteneva alla giurisdizione di Erode, lo
mandò da Erode, che proprio in quei giorni si trovava a Gerusalemme. 8 Vedendo
Gesù, Erode si rallegrò molto. Da tempo infatti desiderava vederlo, per averne
sentito parlare, e sperava di vederlo compiere qualche miracolo. 9 Lo interrogò
con insistenza, ma Gesù non rispose nulla. 10 Intanto i capi dei sacerdoti e i
dottori della legge, che erano presenti, insistevano nell’accusarlo. 11 Erode,
insieme ai suoi soldati, lo insultò e lo schernì; gli mise addosso una veste
bianca e lo rimandò a Pilato. 12 Erode e Pilato, che prima erano nemici, da
quel giorno diventarono amici. 13 Pilato, riuniti i capi dei sacerdoti, le
autorità e il popolo, disse: 14 “Mi avete presentato quest’uomo come
sobillatore del popolo. Ecco, io l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho
trovato in lui nessuna delle colpe di cui lo accusate; 15 e neppure Erode,
perché ce lo ha rimandato. Dunque egli non ha fatto nulla che meriti la morte.
16 Perciò, dopo averlo fatto frustare, lo rimetterò in libertà. 17 Per la festa
egli doveva mettere loro in libertà qualcuno. 18 Ma essi si misero a gridare
tutti insieme: “Togli di mezzo costui! Rimettici in libertà Barabba!” 19 Questi
era stato messo in prigione per una sommossa scoppiata in città e per omicidio.
20 Pilato parlò loro di nuovo, volendo rimettere in libertà Gesù. 21 Ma essi
gridavano: “Crocifiggilo, crocifiggilo!” 22 Egli, per la terza volta, disse
loro: “Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato nulla in lui che meriti la
morte. Perciò lo farò frustare e poi lo rilascerò”. 23 Ma essi insistevano a
gran voce, chiedendo che fosse crocifisso. E le grida loro si facevano sempre
più forti. 24 Pilato allora decretò che fosse eseguita la loro richiesta. 25
Rilasciò colui che era stato messo in prigione per sommossa e omicidio, e che
quelli richiedevano, e abbandonò Gesù alla loro volontà.
L’ultimo
passo lucano in cui figura Pilato è di nuovo relativo a Giuseppe di Arimatea e
alla restituzione del corpo di Cristo, in Lc 23,52. Negli Atti, il praefectus Iudaeae,
ricorre in 3,13; 4,27 e 13,28 in una luce alquanto garantista, apologetica - ad
eccezione forse di At 4,27 – e propensa all’innocenza dell’imputato Gesù
piuttosto che alla sua condanna, aspetto del resto caratteristico della
narrazione lucana, come in seguito del Vangelo giovanneo:
Il Dio di
Abramo, d’Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo
servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato davanti a Pilato, mentre egli
aveva deciso di liberarlo. (At 3,13)
Davvero in
questa città hanno fatto congiura contro il tuo santo servo Gesù, da te
consacrato, Erode e Ponzio Pilato con i pagani e i popoli d’Israele (At 4,27)
E
pur non avendo trovato alcun motivo di condanna a morte, chiesero a Pilato che
fosse ucciso (At 13,28)
Nel
Vangelo di Giovanni, databile in
genere fra l’85-95 d.C. e comunque non più tardo del 100-110 d.C., «La figura
di Pilato presenta molte analogie con quella che s’incontra in Marco[…]»:
un governatore inflessibile e abile manipolatore, tutt’altro che debole o
vacillante, bensì irridente e scaltro nel canzonare e schernire il popolo giudeo
con le sue, a parer romano, folli o
risibili credenze messianiche. A detta della studiosa inglese, Helen K. Bond,
«nel Vangelo di Giovanni, Pilato non è un governatore impotente e benevolo ma,
al pari dei Giudei, è un
rappresentante del mondo ostile che rifiuta Gesù» e tuttavia «ricopre una
importante funzione apologetica quando dichiara per tre
volte l’innocenza di
Gesù».
A differenza dei tre Sinottici, Giovanni assegna una considerevole ed estesa
sezione narrativa al processo civile, coinvolgendo le autorità romane fin dal
momento dell’arresto e tacendo ogni forma di processo giuridico giudaico, seppure
in Gv 11,47-53 i sacerdoti-capi e i farisei sono descritti in atto di convocare
il sinedrio per discutere sull’homo (qui)
multa signa facit e decretare, infine, ut
interficerent eum. Nella narrazione giovannea, nonostante si faccia accenno
ad un interrogatorio di Anna, suocero di Caifa (Gv 18,19-23), e ad un
successivo invio di Gesù dalla casa di Anna a quella del sommo sacerdote (Gv
18,24), tuttavia, permane l’assenza di una qualunque attestazione giuridica
valida di processo formale ad opera delle autorità giudaiche, in sostanziale discordanza
con i Sinottici. L’attenzione narrativa del quarto vangelo si espleta
nell’acribia della descrizione di fasi, parole e gesti del solo processo romano
e della crocifissione (Gv 18,28-40; 19):
28 Allora
condussero Gesù dalla casa di Caifa al pretorio. Era di buon mattino. […]
Pilato dunque uscì fuori, da loro, e disse: “Quale accusa portate contro
quest’uomo?” 30 Gli risposero: “Se costui non fosse un malfattore, non te
l’avremmo consegnato”. 31 Disse loro Pilato: “Prendetelo voi e giudicatelo
secondo la vostra legge”. Gli dissero i Giudei: “A noi non è permesso mettere a
morte nessuno”. […]33 Allora Pilato entrò di nuovo nel pretorio, chiamò Gesù e
gli disse: “Sei tu il re dei Giudei?” 34 Gesù rispose: “Dici questo da te
stesso o altri te l’hanno detto di me?” 35 Rispose Pilato: “Sono io forse un
Giudeo? La tua nazione e i sacerdoti-capi ti hanno consegnato a me. Che cosa
hai fatto? 36 Rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo. Se di questo
mondo fosse il mio regno, le mie guardie avrebbero combattuto perché non fossi
consegnato ai Giudei. Ora, il mio regno non è di qui”. 37 Gli disse allora
Pilato: “Dunque tu sei re?” Rispose Gesù: “Tu dici che io sono re. Io sono nato
per questo e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla
verità. Chiunque è della verità, ascolta la mia voce”. 38 Gli dice Pilato: “Che
cos’è la verità?” Detto questo, uscì di nuovo dai Giudei e disse loro: “Io non
trovo in lui colpa alcuna. 39 Ma voi avete l’usanza che io vi liberi qualcuno a
Pasqua. Volete dunque che vi liberi il re dei Giudei?” 40 Si misero allora a
gridare: “Non lui, ma Barabba!” Barabba era un bandito.
Lo
scenario descritto al lettore mostra un prefetto di Giudea debole e vacillante,
sfuggente e contraddittorio, scisso e dubbioso nell’altalenante andirivieni fra
il pretorio e la piazza, fra Gesù e la folla. Eppure, dal serrato racconto dell’interrogatorio sull’identità e l’azione
del presunto malefactor che, nella
tradizione giovannea, si apre poi a riflessioni sulla basilei/a, il regno
di Gesù, Giovanni prosegue nella narrazione tratteggiando Pilato come affatto
turbato dalla reticenza o silenzio della vittima dinanzi a varie domande - tra
le quali la celeberrima «quid est
veritas?» - anzi, paradossalmente, la mancata risposta a tale filosofica quaestio sembra sostenere, nelle
successive parole del rappresentante romano, il riscontro di un’assenza di
colpevolezza nell’accusato. L’autorità romana rileva
nell’imputato Gesù ou)demi/a ai)ti/a.
Nessuna colpa: l’innocenza. Per tre volte, successivamente, Pilato ribadisce
alla folla dei Giudei questa non colpevolezza. A suo giudizio viene a mancare
il capo di imputazione necessario all’esercizio dello ius gladii, alla condanna stessa.
L’inquisitorio
rito romano della cognitio extra ordinem
viene ad essere inficiato, la notitia
criminis fornita dal Sinedrio circa un presunto crimen di laesa maiestas,
in forza della proclamata regalità messianica di Gesù, viene a decadere e, in
quello che appare un ultimo tentativo del prefetto di dimittere (=salvare) un uomo non colpevole,
Pilato propone una liberazione nell’ambito della consueta amnistia pasquale.
Gesù o Barabba? L’innocens o il l$sth/j? «Barabba era un bandito»,
scrive Giovanni, eppure la folla lo vuole libero e chiede, con insistenza, la
crocifissione di Gesù. Pilato, infine, acconsente e lo consegna ut crocifigeretur.
Come
si spiegano allora quei precedenti tentativi di dimissio in favore di Gesù? Una contraddittoria fictio narrativa? Un’ondivaga incertezza
del prefetto romano, suscettibile di pressioni esterne?
In realtà, come argomentato nel saggio Ponzio Pilato della già citata ricercatrice
inglese Helen K. Bond, ogni dissertazione meta-letteraria che voglia
considerare Pilato come «un personaggio ben disposto, intenzionato a liberare
Gesù» incontra delle difficoltà. «Il prefetto gli infligge una punizione
corporale durissima, lo presenta nelle vesti di un re fantoccio agli stessi Giudei
che gliel’hanno consegnato […]», inoltre, anche nell’episodio di Barabba
«Pilato afferma che sta portando Gesù fuori per dimostrare che non trova in lui
nessuna colpa, s’intende nessuna colpa politica, poiché la regalità che Gesù
dice di possedere non costituisce una minaccia per lo Stato romano».
Nell’acconciare e schernire l’uomo dello scandalo come re dei Giudei, a detta di Bond e di un altro studioso, Barnabas
Lindars, autore di The Gospel of John,
«in Giovanni, Pilato si prende gioco non solo dei giudei e delle loro speranze
nazionalistiche ma anche del prigioniero che gli sta di fronte».
Tale riflessione, seppur plausibile, non ostacola altre considerazioni di
natura teoretica sull’argomento. Nel prosieguo del racconto giovanneo la salda
autorità imposta da Pilato su Gesù e i Giudei vacilla improvvisamente, velata
forse da un manto di superstizione. In Gv 19,7 i Giudei, in risposta all’invito
del prefetto ad assumere loro stessi l’onere della crocifissione, replicano di
avere una legge secondo la quale Gesù debet
mori, quia Filium Dei se fecit. L’essersi fatto Figlio di Dio è il nuovo crimen di matrice giudaica, che desta
peraltro un inspiegabile timore nel rappresentante romano, connesso forse a
credenze pagane sull’esistenza di esseri divini o semi-divini, figli di dei o
dei essi stessi. È in
tale timorosa circostanza che Pilato rientra nel pretorio cercando di
persuadere Gesù a parlargli, a chiarire la sua posizione, rivendicando una vitae necisque potestas su di lui (Gv
19,10) ed è dal momento in cui l’accusato Figlio
di Dio ribatte a Pilato l’inconsistenza di ogni potestas terrena se questa non provenisse desuper, che il funzionario imperiale mette in campo l’estremo
tentativo di liberarlo. Ancora una volta, però, dinanzi alla folla e all’accusa
mossagli da quest’ultima di non ottemperare con liceità alla fili/a tou=
Kai/saroj, qualora
avesse liberato Gesù, Pilato cede alle pressioni,
ma con sarcasmo, domandando, forse con retorica, ai Giudei: «Crocifiggerò il
vostro re?». Il prefetto di Giudea estrae, così, dall’animo ottenebrato d’ira
della folla un giuramento di fedeltà, inconsapevole e forzato, all’unico re dei
Romani e dei sudditi provinciali: il Cesare, l’imperatore.
Che
sostanzialmente fosse questo lo scopo di Pilato, fin dall’inizio, e cioè di
condurre i rivoltosi abitanti della turbolenta provincia di Giudea a rinnegare
la sovranità del loro Dio e del Suo presunto messia, per chinare
volontariamente, inconsciamente il capo loro all’autorità di Roma? Non è certo,
ma la volontà del governatore di beffare fino all’estremo il popolo
conquistato, fece bella mostra di sé nel titulus
in aramaico, greco e latino (Gv 19,20), affisso sulla croce: Gesù Nazareno re
dei Giudei, prova
effettiva dell’esistenza di un verdetto formale. Per la mentalità antica,
nessun uomo poteva uccidere un essere divino e tanto meno riservandogli una
morte fra le più ignominiose e infamanti: la morte in croce; eppure i timores di Pilato nei confronti del Filius Dei sembrano ora essersi
dissolti: il servile supplicium era
una pena comminata a schiavi e a delinquenti, non certo ad uomini liberi o a re
e inchiodare nell’ignominia un individuo alla croce, ponendovi in capo un titolo regale, costituiva una duplice
irrisione, visto che i Giudei, risentiti, chiesero a Pilato di modificare il
testo del titulus crucis, ma invano.
Secca e dispotica fu la risposta del governatore: quod scripsi scripsi.
Tutt’altro
che debole e incerto, dunque, il comportamento del praefectus romano? Parrebbe di sì. Nell’atteggiamento del Pilato
giovanneo non si ravvisano tratti magnanimi o bonari, egli presenta piuttosto
molte somiglianze con l’inflessibile governatore di Marco: deride il popolo e
in modo subdolo lo costringe alla resa incondizionata di ogni pretesa
nazionalistica o messianica.
3.
Conclusione
Sopravvissuto
nella memoria cristiana in virtù del suo legame con il Salvatore, il nome di
Ponzio Pilato, quinto prefetto di Giudea, mantiene nelle fonti (giudaiche e
neotestamentarie), che di lui attestano l’esistenza, un’ambiguità di carattere
e d’azione, non immediatamente riconducibile ad un profilo univoco, bensì ad
una congerie di declinazioni interpretative spesso sfuggenti e contraddittorie o
paradossalmente paradigmatiche, stereotipate, mai tuttavia uniformanti al di là
della semplice attestazione storica.